domenica 31 maggio 2009

Il teatro di Giulio Cavalli

Attore e drammaturgo milanese, Giulio Cavalli è una delle nuove voci del teatro di narrazione civile in Italia. Negli ultimi mesi, il suo percorso è caratterizzato dall'impegno contro la mafia, con la produzione dell'opera Do ut des e l'apertura del sito internet www.radiomafiopoli.org. Per tale attività di denuncia, Cavalli ha subito numerose minacce ed intimidazioni che lo costringono, dall'agosto del 2008, a vivere sotto scorta.





tratto da www.giuliocavalli.net

La vertigine mi è arrivata ad un incontro organizzato contro le mafie, dopo che si era finiti come spesso mi capita ultimamente a parlare del programma di protezione nei miei confronti per il mio spettacolo Do Ut Des, riti e conviti mafiosi: una ragazza tra il pubblico mi ha chiesto chi me l’avesse fatto fare di uscire dai binari comodi delle storielle teatrali per approfondire e scontrarmi mettendo in pericolo la mia sicurezza e quella della mia famiglia. Lì per lì devo aver avuto in faccia una delle espressioni più sconsolate del mio repertorio.

C’è un malinteso di fondo in quello che è etichettato come “il teatro civile” di seconda generazione in Italia: il mezzo teatrale si è trasformato in un alibi per mediare contenuti e posizioni. Allora forse sarebbe opportuno fermarsi tutti, operatori e critici, per riconsiderare l’obbiettivo di un’orazione civile. Perché l’onda lunga del monologo in quanto commercialmente più appetibile (in un momento nero di mercato teatrale), l’abitudine della favoletta con sullo sfondo la tragedia recente e il suo bacino di affezionati, l’umorismo facile appoggiato sulla comodissima indignazione cronica, l’impacchettamento lacrimevole da scaffale o i funerali da palcoscenico non hanno nulla a che vedere con la funzione di informazione e approfondimento di uno spettacolo intellettualmente onesto. E così si alimenta sempre di più quel teatro da cassetta che assomiglia nei tempi e nei modi alla Beneamata tivù. Quando i famigliari delle vittime dell’incidente di Linate dell’8 ottobre 2001 hanno fatto irruzione nelle fasi di scrittura e preparazione del mio spettacolo per quella strage ci siamo subito resi conto delle unicità del modus che avevamo a disposizione: il tempo e la vicinanza fisica del nostro pubblico per chiarire (uscendo da quest’informazione commerciale tutta a spot), una faccia e un corpo per accusare guardando fissi negli occhi, un posto fisico dove prendere una posizione. Per questo mi piace pensare ad un teatro partigiano piuttosto che civile dove sia obbligo morale prendere una parte, svelare una tesi e appoggiare informazioni desuete o volutamente dimenticate: un’azione teatrale di svelamento contro la normalizzazione controllata delle opinioni e delle sensazioni. Oggi noi narratori abbiamo la grande occasione di metterci in rete con tutto quel giornalismo non normalizzato che si è definito e ha preso coscienza del proprio ruolo e diventare l’uno per l’altro strumenti di amplificazione e affilatori di contenuti. Recuperare la forza rovesciatrice delle Nuvole o della Rane di Aristofane, la giullarata non mediata dei cantastorie per far fruttare il momento teatrale come occasione ormai sempre più rara di comunicazione profondamente genuina e non manipolabile.

Non è un caso che abbia scelto come compagni di studi e scrittura per i miei spettacoli dei giornalisti, per rispettare e non sprecare un’opportunità difficilmente ripetibile: un palcoscenico che si prenda il lusso di fare luce. Lasciamo i compromessi ai romanzi storici da autogrill, la strumentalizzazione lacrimevole alle trasmissioni tutte da ridere, l’esibizionismo del monologo agli onanisti d’accademia e il racconto scorrevole alle riviste da spiaggia. Noi prendiamoci la responsabilità della fiducia di un pubblico intelligente alimentandola ad ogni battuta.

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sabato 23 maggio 2009

Eroi moderni: Giovanni Falcone

A 17 anni dall'attentato di Capaci, ricordiamo la figura di Giovanni Falcone, simbolo indiscusso nella difesa delle istituzioni e nella lotta contro tutte le mafie.

tratto da www.lastoriasiamonoi.rai.it

“La mafia è un fenomeno umano e come tutti i fenomeni umani ha un principio, una sua evoluzione e avrà quindi anche una fine”

La figura di Giovanni Falcone rappresenta un pilastro fondamentale nella lotta alla mafia e più in generale nella storia della Repubblica Italiana; uno straordinario esempio di fiducia e dedizione alle istituzioni: la fedeltà incondizionata di Falcone per lo Stato è stata a lungo espressa come un'anomalia, rispetto alla Sicilia e al suo capoluogo Palermo che dopo la sua morte sembrano aver finalmente ritrovato il coraggio di combattere la piaga della malavita.

Nel maxiprocesso che termina nel 1987 mettendo in ginocchio Cosa Nostra, il ruolo incarnato dal giudice Falcone è essenziale perché definisce nuove procedure e più efficaci metodi d'indagine, e fa capire che una strategia coordinata, portata avanti con determinazione, può sconfiggere definitivamente la "piovra".

Una vita di lotta alla mafia
Nato a Palermo il 18 maggio 1939, Giovanni Falcone si laurea in Giurisprudenza nel 1961 e diventa magistrato nel 1964; in dodici anni di esperienza come Sostituto Procuratore a Trapani il suo interesse si sposta dal diritto amministrativo a quello penale e, dopo appena un anno di lavoro a Palermo, nel 1979 viene impegnato come Giudice Istruttore. L'eco degli omicidi, delle faide che insanguinano la città, lo raggiungono a Palazzo di Giustizia e consolidano il suo impegno a combattere il crimine organizzato.

Quando il Consigliere Rocco Chinnici gli affida l'inchiesta sul mafioso Rosario Spatola, il progetto di Falcone non è quello di condurre le indagini sul singolo caso, ma di arrivare ad una conoscenza dettagliata ed esauriente del fenomeno mafioso: comporre un quadro d'insieme che permetta di estirpare Cosa Nostra alla radice. Sotto la guida di Chinnici, si forma al Tribunale di Palermo una squadra affiatata di magistrati che si dimostra capace di intraprendere questa battaglia con successo.

Rosario Spatola è il principale costruttore di Palermo, ricicla il denaro frutto del traffico di eroina dei clan italo-americani Boutade-Inzerillo-Gambino. Per indagare su Spatola hanno già perso la vita il capo della Mobile Boris Giuliano e il capitano dei carabinieri Emanuele Basile. Falcone scopre che Spatola è parente diretto dei boss mafiosi italo-americani. Ma questo non gli basta. E’ ai soldi dei mafiosi che Falcone vuole arrivare. Così, aiutato dal capo della Mobile, Ninni Cassarà, compie una serie di perquisizioni nelle principali banche siciliane, provocando l’ira della Palermo che conta. Intanto, Giovanni intuisce che i clan mafiosi agiscono separatamente ma hanno un unico vertice, proprio a Palermo. A Giovanni viene affiancato l’agente Lillo Zucchetto, incaricato di proteggerlo. Falcone va a New York e grazie alla collaborazione di Rudolph Giuliani, interroga il trafficante di eroina Gillet e scopre che le raffinerie che trasformano la sostanza base in eroina si trovano proprio a Palermo, e che l’uomo che organizza il traffico è il boss Mafara. Intanto a Palermo esplode la guerra di mafia. Le condanne del processo Spatola hanno indebolito i vecchi boss Stefano Bontade e Totuccio Inzerillo, che vengono eliminati nell'ambito di una faida fratricida. I corleonesi di Totò Riina hanno dato inizio al loro assalto a Palermo uccidendo chiunque non passi dalla loro parte.


Il processo Spatola, senza precedenti per la fermezza della sentenza con cui si conclude, è in effetti la prima manifestazione del nuovo approccio all'inchiesta messo a punto da Falcone: le indagini bancarie e patrimoniali, la ricostruzione dei percorsi di circolazione del denaro sporco permettono di comporre una visione d'insieme delle associazioni mafiose, dei traffici e degli appalti ad esse collegati, e forniscono prove determinanti che non possono essere ignorate traducendo, come in passato, le sentenze in desolanti assoluzioni. Più le banche si mostrano riluttanti nel fornire informazioni, più Falcone si convince di essere vicino ai suoi obiettivi, e quando arrivano minacce ed avvertimenti si rafforza in lui l'ostinazione a proseguire la lotta al potere delle cosche.

Sangue a Palermo
La reazione della mafia, che avverte un pesante pericolo per la propria sopravvivenza, è spietata: il 30 aprile 1982 viene assassinato il deputato comunista Pio La Torre, fautore di una proposta di legge in Parlamento per l'introduzione del reato di associazione mafiosa e la confisca del patrimonio dei boss; il 3 settembre dello stesso anno i sicari uccidono il Generale dei Carabinieri Carlo Alberto Dalla Chiesa, tornato in Sicilia dopo le vittoriose operazioni contro il terrorismo per affrontare la situazione di emergenza.

La collaudata squadra di magistrati palermitani lamenta la mancanza di poteri speciali, negati dal governo allo stesso Dalla Chiesa, ma non abbandona il difficile lavoro; se saluta con speranza l'approvazione della legge elaborata da La Torre e siglata dal Ministro dell'Interno Rognoni, deve far fronte ad una spaventosa catena di omicidi che non conosce soste: il 29 luglio 1983 muore in un agguato anche Rocco Chinnici, lasciando i suoi collaboratori nello sconforto; l' Italia intera e' a lutto..

Il maxiprocesso alla mafia
Il lavoro dei giudici riprende però con nuovo slancio ed affiatamento all'arrivo di Antonino Caponnetto, che subentra a Chinnici riprendendone opera e metodi, e inoltre ripropone a Palermo una strategia già efficace contro il terrorismo: la creazione di un pool di magistrati dedicati esclusivamente alla lotta contro la mafia.
Giovanni Falcone, Paolo Borsellino, Giuseppe di Lello e Leonardo Guarnotta possono concentrarsi nelle indagini più importanti senza distrazioni, esonerati dalla normale attività giudiziaria; la loro idea del pool come entità collettiva, organizzazione di squadra non soggetta alle vulnerabilità dei singoli individui risulta estremamente efficace perché consente alle indagini di sopravvivere anche nel caso in cui il magistrato che le conduce venisse assassinato.
E' il 1984 quando la cattura e le successive confessioni di Tommaso Buscetta, riconosciuto come il primo pentito nella storia di Cosa Nostr permettono al pool antimafia di analizzare con capillare precisione la rete di collegamenti della piovra, assicurare alla giustizia interi clan (circa 500 arrestati durante il cosiddetto “Blitz di San Michele”) ed istituire un maxiprocesso con più di 400 imputati.

Il processo che inizia il 10 febbraio 1986 a Palermo nell'aula bunker del carcere dell'Ucciardone è la più grande ed ambiziosa operazione giudiziaria condotta contro la cupola, il vertice dell'organizzazione mafiosa: non si tratta di un procedimento particolare, ma di una causa contro il sistema mafioso nel suo complesso, il primo sistematico tentativo di decapitare la piovra incarcerandone i capi fino ad allora sempre sfuggiti alla giustizia. L'eccezionalità dell'evento è dimostrata anche dall'enorme spiegamento di uomini e mezzi che devono garantire la sicurezza per tutta la durata del dibattimento. Il verdetto che arriva dopo 22 mesi, il 16 dicembre 1987, condanna i padrini a 19 ergastoli ed altri 339 imputati a 2665 anni di carcere complessivi: per i componenti del pool si tratta di uno straordinario successo poiché vedono finalmente riconosciute l'importanza del loro lavoro e l'abnegazione con cui viene svolto.

Un impegno tra mille difficoltà
Gli ostacoli a cui è sottoposto il pool sono infatti difficilmente sostenibili: dopo gli omicidi del commissario Beppe Montana (28 luglio 1985) e del vice questore Ninni Cassarà (6 agosto 1985) in forza alla Squadra Mobile, Falcone e Borsellino vengono per sicurezza temporaneamente trasferiti con le loro famiglie al carcere dell'Asinara. I magistrati sono da anni costretti a vivere perennemente sotto scorta, blindati in ogni spostamento e di fatto rinunciano ad un'autentica vita privata per dedicarsi completamente all'impegno verso lo Stato.
Le istituzioni a Roma però non sembrano corrispondere una piena attenzione, e non riescono ad assicurare al pool un'ampia tutela quando inizia una clamorosa serie di attacchi incrociati: da una parte numerosi componenti della stessa magistratura palermitana osteggiano il maxiprocesso, e tra loro probabilmente si inserisce il “corvo” autore anonimo di lettere calunniose, dall'altra la stessa Corte di Cassazione tende a disconoscere presupposti e risultati delle indagini del pool.

Nel 1988, quando Caponnetto lascia l'incarico per limiti di età, a succedergli non è Falcone perché incredibilmente il Consiglio Superiore della Magistratura gli preferisce Antonino Meli: l'ondata di veleni e polemiche che ne segue, e di cui intanto la mafia approfitta per riorganizzarsi, mette a repentaglio un lavoro decennale e lascia il pool quasi completamente isolato fino al punto da venire ufficialmente sciolto.

Mentre Borsellino è trasferito a Marsala, Falcone viene chiamato a Roma dal Ministro di Grazia e Giustizia Claudio Martelli per guidare la direzione affari penali, ma non rinuncia ad occuparsi ancora di mafia: molte questioni restano irrisolte e l'impegno di un'intera vita non può essere improvvisamente abbandonato; per questo Falcone insiste sulla creazione di una Superprocura che possa affrontare la malavita con mezzi adeguati. Proprio da Roma ha la capacità di indagare il fittissimo tessuto di intrecci tra politica, economia e una mafia che ormai da tempo non è più confinata nella sola Sicilia ma si è espansa inserendo uomini fidati in tutta la penisola, soprattutto nel Nord Italia dove opera un'imprenditoria non trasparente senza troppi clamori e risulta più facile investire capitali di provenienza illecita o farli transitare verso le banche svizzere.

La strage di Capaci
I torbidi interessi e i potentati minacciati dalle indagini fanno però di Falcone una vittima designata, bersaglio non più delle diffamazioni, ma di una vera e propria guerra che la mafia decide di intraprendere per metterlo a tacere. Falcone e Borsellino sono per la cupola gli avversari più pericolosi, perché essendo siciliani e palermitani conoscono i linguaggi, le regole, le mosse strategiche delle cosche e mettono però la loro conoscenza al servizio dello Stato.
Falcone, miracolosamente scampato ad un attentato dinamitardo il 20 giugno 1989 presso la sua villa sul litorale dell'Addaura, sa di essere condannato e di non poter contare sull'appoggio o la protezione del potere politico, ma continua eroicamente il suo lavoro. Nelle sue stesse parole, si tratterebbe di ordinaria amministrazione: il dovere morale al quale ogni buon cittadino è chiamato non comporta, secondo Falcone, nessun eroismo.

Il 23 maggio 1992, un jet del SISDE trasporta il magistrato dall'aeroporto di Ciampino allo scalo palermitano di Punta Raisi; durante il successivo tragitto verso la città, all'altezza dello svincolo autostradale di Capaci, un ordigno di potenza inaudita travolge la Fiat Croma blindata su cui viaggia il giudice e le due auto della scorta: perdono la vita Giovanni Falcone, sua moglie Francesca Morvillo e gli agenti Rocco Di Cillo, Vito Schifani, Antonio Montinaro.

Per la storia italiana si apre una delle pagine più buie: la mafia, dopo avere ucciso anche Paolo Borsellino il 19 luglio 1992, sfida apertamente lo Stato in una guerra che semina esplosioni e distruzione fino a Roma, Firenze, Milano. Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, impareggiabili esempi di lealtà e moralità, coraggio e smisurata umanità, sono la luce che negli anni ha dato la forza, la speranza per continuare a credere e lottare: ci hanno insegnato che la mafia deve e soprattutto può essere sconfitta.

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giovedì 21 maggio 2009

"La crisi economica può salvare il pianeta". Gli studenti d'Ingegneria a lezione di "Decrescita"

di Isabella Rossi

“Siamo in una crisi economica che rientra nelle normali fasi di contrazione o si tratta di una crisi sistemica?” Questo il quesito posto a Mauro Bonaiuti, docente di Economia presso le Università di Modena e Bologna e presidente delle Rete Italiana per la Decrescita, che su invito dell’Isf di Perugia, l’associazione Ingegneri senza frontiere, ha tenuto mercoledì pomeriggio nell’aula magna della Facoltà di Ingegneria una conferenza-dibattito dal titolo “Pensare la decrescita”.

Nessuna intenzione di creare allarmi, né di presentare l’ennesimo uovo di Colombo ai tempi della crisi economica mondiale. Ciò che preme al professor Bonaiuti è l’esplorazione del fenomeno crisi da una prospettiva multidimensionale, in cui l’economia è punto di partenza e di arrivo.

“Nel luglio 2008 il petrolio ha superato i 140 dollari al barile. Secondo alcuni studiosi potrebbe essere la bolla speculativa del petrolio ad aver innescato la crisi mondiale. In questo caso avremmo a che fare con una crisi sistemica”. La causa diretta non sarebbe il crollo dei mercati finanziari, come si sente insistentemente ripetere, ma il progressivo esaurimento della fonte “non rinnovabile” per eccellenza, il motore dell’intero pianeta. Tesi, ovviamente confutabile, a cui tuttavia fa da corollario una premessa metodologica inconsueta: la multidimensionalità. Se nessuno si aspettava una crisi di tale portata è per “l’incapacità degli economisti di leggere una realtà multidimensionale dovuta, in parte, alla tendenza a prendere modelli di riferimento dal passato”. Ovvero l’economia come processo lineare è mera illusione. Lo insegna “il principio di emergenza” secondo il quale al crescere di una dimensione economica si ha una “trasformazione della relazione tra le parti”. E il rapporto tra popolazione e risorse del pianeta si è fortemente modificato dal 1820 al 2000 in una crescita economica del pianeta senza precedenti.

Ma l’economia di mercato, responsabile della crescita, non è stata in grado di integrare la reciprocità, la redistribuzione e lo scambio di mercato, organicamente e contestualmente presenti nell’ “economia umana”. L’ esclusione di questi elementi avrebbe generato danni all’umanità e all’economia. Questo, esemplificando, l’insegnamento di Karl Paul Polanyi, filosofo, economista e antropologo ungherese, a cui il movimento della Decrescita si inspira. Uno del tutto evidente è il danno ecologico.

Lo testimonia l’impronta ecologica globale (l’indice statistico che misura l'area biologicamente produttiva di mare e di terra necessaria per rigenerare le risorse consumate da una popolazione umana e per assorbire i rifiuti corrispondenti, ndr) che oggi supera il 30% del fruibile. In altre parole “ci stiamo mangiando il futuro” secondo Bonaiuti. E non abbiamo risolto neanche il problema della povertà per il quale si è creduto che lo sviluppo fosse la soluzione.

In realtà la competizione internazionale, vinta da pochi, ha aumentato il numero dei poveri “che non hanno più niente da offrire al mercato globale”. Contro un uno per cento che possiede il 57 per cento delle risorse ci sono i milioni di persone che non possiedono più di due dollari al giorno. Altro effetto negativo è la “dissoluzione dei legami sociali” nella società di mercato, in cui gli oggetti, e non le relazioni con il prossimo, sono elementi costitutivi dell’identità personale. Per Bonaiuti sul grafico dello sviluppo senza fine è apparsa improvvisamente una curva.

“Mi capita di girare molto per l’Italia ma qui il livello di preparazione è davvero buono” si è complimentato il professore con gli studenti, che al termine del dibattito hanno sollevato quesiti, sferrato critiche ed espresso curiosità verso la teoria della Decrescita. Di fatto uno slogan, una provocazione o “una definizione di transizione volontaria verso una società equa, partecipata ed ecologicamente sostenibile”. Un ringraziamento particolare è andato al professor Gianni Bidini, rettore della facoltà di Ingegneria, che ha reso possibile l’iniziativa.


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mercoledì 20 maggio 2009

Eroi moderni: Aung San Suu Kyi

Con questo post, Socialmente Giovani manifesta la propria solidarietù alla politica e attivista per i diritti umani Aung San Suu Kyi, arrestata lo scorso 14 maggio dalla giunta militare di Myanmar, e si associa alla richieste unanimi proveniente da tutto il mondo per una sua immediata liberazione.

Tratto da www.wikipedia.org

Nata a Rangoon il 19 maggio 1945, Aung San Suu Kyi è una politica birmana, attiva nella difesa dei diritti umani. Sin da giovane si impone nella scena nazionale del suo paese, devastato da una pesante dittatura militare, come una leader del movimento non-violento, tanto da meritare i premi Rafto e Sakharov, prima di essere insignita del premio Nobel per la pace nel 1991. Recentemente il nuovo Premier inglese Gordon Brown ne ha tratteggiato il ritratto nel suo volume "Eight Portraits" come modello di coraggio civico per la libertà.

Figlia del generale Aung San e di Khin Kyi. La vita di Aung San Suu Kyi è stata travagliata già dai primi anni di vita. Suo padre, uno dei principali esponenti politici birmani, dopo aver negoziato l'indipendenza della nazione dal Regno Unito nel 1947, fu infatti ucciso da alcuni avversari politici nello stesso anno, lasciando la bambina di appena due anni, oltre che la moglie, Khin Kyi, e altri due figli, uno dei quali sarebbe morto in un incidente.

Dopo la morte del marito, Khin Kyi, la madre di Aung San Suu Kyi divenne una delle figure politiche di maggior rilievo in Birmania, tanto da diventare ambasciatrice in India nel 1960. Aung San Suu Kyi fu sempre presente al fianco della madre, la seguì ovunque, ed ebbe la possibilità di frequentare le migliori scuole indiane e successivamente inglesi, tanto che nel 1967, ad Oxford, conseguì la prestigiosa laurea in Filosofia, Scienze Politiche ed Economia. Continuò poi i suoi studi a New York e nel 1972 cominciò a lavorare per le Nazioni Unite, e in quel periodo conobbe anche uno studioso di cultura tibetana, Micheal Aris, che l'anno successivo sarebbe diventato suo marito, e padre dei suoi due figli, Alexander e Kim.

Ritornò in Birmania nel 1988, per accudire la madre gravemente malata, e proprio in quegli anni il generale Saw Maung prese il potere e instaurò il regime militare che tutt'ora comanda in Myanmar. Fortemente influenzata dagli insegnamenti del Mahatma Gandhi, Aung San Suu Kyi sposò la causa del suo paese in maniera non-violenta e fondò la Lega Nazionale per la Democrazia, il 27 settembre 1988. Neanche un anno dopo le furono comminati gli arresti domiciliari, con la concessione che se avesse voluto abbandonare il paese, lo avrebbe potuto fare; Aung San Suu Kyi rifiutò la proposta del regime.

Nel 1990 il regime militare decise di chiamare il popolo alle elezioni, e il risultato fu una schiacciante vittoria della Lega Nazionale per la Democrazia di Aung San Suu Kyi, che sarebbe quindi diventata Primo Ministro, tuttavia i militari rigettarono il voto, e presero il potere con la forza, annullando il voto popolare. L'anno successivo Aung San Suu Kyi vinse il premio Nobel per la Pace, ed usò i soldi del premio per costituire un sistema sanitario e di istruzione, a favore del popolo birmano.

Gli arresti domiciliari le furono revocati nel 1995, ma rimaneva comunque in uno stato di semi libertà, non poté mai lasciare il paese, perché in tal caso le sarebbe stato negato il ritorno in Myanmar, e anche ai suoi familiari non fu mai permesso di visitarla, neanche quando al marito Michael fu diagnosticato un tumore, che di lì a due anni, nel 1999, lo avrebbe ucciso, lasciandola vedova.

Nel 2002, a seguito di forti pressioni delle Nazioni Unite, ad Aung San Suu Kyi fu riconosciuta un maggiore libertà d'azione in Myanmar, ma il 30 maggio 2003, il dramma: mentre era a bordo di un convoglio con numerosi supporters, un gruppo di militari aprì il fuoco e massacrò molte persone, e solo grazie alla prontezza di riflessi del suo autista, Ko Kyaw Soe Lin, riuscì a salvarsi, ma fu di nuovo messa agli arresti domiciliari. Da quel momento, la salute di Aung San Suu Kyi è andata progressivamente peggiorando, tanto da richiedere un intervento e vari ricoveri.

Il "caso" Aung San Suu Kyi ha incominciato ad essere un argomento internazionale, tanto che gli Stati Uniti d'America e l'Unione Europea hanno fatto grosse pressioni sul governo del Myanmar per la sua liberazione, ma gli arresti domiciliari furono rinnovati per un anno nel 2005 e ulteriormente rinnovati nel 2006 e nel 2007. Tutt'ora Aung San Suu Kyi è agli arresti domiciliari.

Per quanto sta facendo per la causa del popolo birmano, alcune prestigiose Università in Europa e in America vogliono assegnarle delle lauree Honoris Causa, per il suo grande impegno civile, e per la difesa dei diritti umani e della pace.

Il 9 novembre 2007, Aung San Suu Kyi ha lasciato la sua abitazione dove era confinata agli arresti domiciliari e ha incontrato il ministro nominato ad hoc dalla giunta militare al potere per il dialogo con l'opposizione, il ministro dei trasporti Aung Kyi. Un dirigente della Lega nazionale per la democrazia ha detto che Suu Kyi ha anche incontrato tre esponenti del suo partito, che non incontrava da tre anni.

Per il suo impegno a favore dei diritti umani il 6 maggio 2008 il Congresso degli Stati Uniti le ha conferito la sua massima onorificenza: la Medaglia d'Onore.

Il 3 maggio 2009, John William Yethaw, cittadino americano mormone, raggiunge a nuoto la casa in cui è costretta agli arresti domiciliari attraversando il lago Inya. Il 14 maggio la giunta militare arresta e processa (18 maggio) Aung San Suu Kyi per violazione degli arresti domiciliari. Il termine dei domiciliari e la liberazione dell'attivista birmana dall'ultimo arresto sarebbero scaduti il 21 maggio. Secondo buona parte della stampa internazionale e la stessa Lega nazionale per la democrazia, l'impresa di Yethaw è stato il pretesto fornito alla giunta militare per mettere fuori gioco Aung San Suu Kyi prima di sottoporre il popolo birmano alla votazione di un referendum per l'approvazione di un testo costituzionale che, di fatto, sancisce la continuazione del potere dei militari sotto forme civili, escludendo del tutto la Lega nazionale per la democrazia.


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venerdì 15 maggio 2009

Note sull'immigrazione clandestina: intervista a Gabriele Del Grande





Trascrizione dell'intervista

Gabriele Del Grande, tu sei il curatore del blog www.fortresseurope.blogspot.com, un osservatorio su internet che si occupa espressamente del fenomeno dell’immigrazione clandestina. Ci puoi descrivere brevemente questo progetto?
Il sito è nato nel gennaio del 2006 da una semplice idea, quella di documentare le vittime dell’immigrazione lungo le frontiere dell’Unione Europea. Un lavoro di documentazione fatto negli archivi della stampa internazionale; dopodiché, dal 2006 a oggi, si sono accumulati una serie di reportage frutto di vari viaggi lungo le frontiere sud dell’Europa e soprattutto si è sviluppata una rete di associazioni, di giornalisti e di informatori che, da ogni angolo della frontiera, ci segnalano le situazioni che si vengono a verificare.

Questo tuo incontro avviene in un momento particolare in cui, a più livelli, è evidente un attacco nei confronti dei diritti degli immigrati senza permesso di soggiorno (ad esempio i recenti tentativi con cui si vorrebbero costringere medici e presidi scolastici a denunciare gli immigrati clandestini o alla vicenda degli immigrati rispediti in Libia senza che venisse fatto alcun tipo di accertamento medico o giuridico: fatto definito da Maroni come “storico” ). In tale contesto peraltro, si denota un arretramento culturale della popolazione italiana che sembra mostrarsi favorevole a questo tipo di interventi e manifesta sempre una maggiore intolleranza nei confronti degli stranieri che vivono nel nostro paese. Qual è la tua opinione a proposito e come pensi che si possa cercare di invertire la tendenza a questo tipo di atteggiamento?
Una domanda da un milione di dollari! Innanzitutto bisognerebbe capire di cosa stiamo parlando perché Maroni parla di passaggio storico nel contrasto dell’immigrazione clandestina come se l’immigrazione clandestina passasse per Lampedusa. Non c’è niente di più falso. L’immigrazione clandestina non passa da Lampedusa: l’immigrazione clandestina è in realtà un primo passo del percorso migratorio di tutti gli immigrati che oggi in Italia hanno il permesso di soggiorno. Che cosa voglio dire? Voglio dire che abbiamo una legge in Italia sull’immigrazione che rende impossibile assumere uno straniero anche quando questo entri in Italia in modo regolare con visto turistico. E quindi che cosa succede (sono cose documentate dai dati del Viminale)? Succede che si arriva in Italia nel 90% con il visto turistico, il visto scade, si entra nella clandestinità, si trova un lavoro in nero e poi di anno in anno ci si regolarizza con questi decreti flussi che vengono emanati da tutti i governi. Lo stesso Maroni, lo scorso anno, ha chiesto l’ingresso di 170 mila lavoratori stranieri: più di cinque volte i circa 36 mila che sono arrivati, nello stesso anno, a Lampedusa. Questo significa che il ministro Maroni, per ogni persona che arriva a Lampedusa, ne chiede altre cinque. Questi sono i dati, queste sono le proporzioni. L’immigrazione clandestina non passa da Lampedusa: 30 mila persone l’anno sono veramente una piccola cifra rispetto ai 4 milioni di immigrati che vivono nel nostro paese. Bisognerebbe capire prima che cosa è la clandestinità e come rendere possibile alle persone di fare quel viaggio in modo regolare; non sui barconi a rischio della vita, ma con il visto sul passaporto e con un comodo viaggio in aereo come facciamo noi quando andiamo a sud. Poi ci sono le questioni dei rifugiati politici: un terzo di chi arriva a Lampedusa viene riconosciuto, da apposite commissioni, come rifugiato politico (come persona cioè verso la quale ci sono degli obblighi internazionali di protezione, scritti nelle convenzioni dell’ONU ma anche – attenzione - all’articolo 10 della nostra Costituzione).

Nel tuo sito, nel parlare delle rotte dell’immigrazione clandestina verso l’Europa, denunci una situazione generale assolutamente drammatica. Solo per dare un dato, dal 1988 a oggi sono state documentate quasi 10000 persone annegate nel Mar Mediterraneo e nell’Oceano Atlantico verso le Canarie. Le istituzioni europee si stanno adoperando per limitare questo fenomeno? E quanto gli interessi geopolitici nei paesi di transito dell’immigrazione clandestina (come Libia o Algeria ad esempio) costituiscono un freno per dare una reale risposta a questo tipo di problema?
Diciamo che le vittime, ad oggi, sono ormai quasi 14 mila e sono solo quelle documentate; il che significa che possono essere molte di più (anche dieci volte tanto). Nessuno è in grado di sapere con certezza quello che avviene in alto mare. L’Europa che cosa sta facendo? L’Europa in realtà sta aggravando il problema. Che cosa voglio dire? Voglio dire che l’intensificarsi dei pattugliamenti lungo le rotte che geograficamente erano le rotte più brevi, cioè dal Marocco verso l’Andalusia, dalla Tunisia a Lampedusa, dalla Turchia alla Grecia, hanno fatto sì che quelle rotte non si sono affatto fermate ma si sono semplicemente spostate, su rotte più lunghe e più pericolose. Guardate quello che è successo ad esempio sul canale di Sicilia. Negli ultimi tre anni noi abbiamo osservato un aumento consistente delle morti in mare, passate da 350 del 2007 ad oltre 600 nel 2008 (quasi il doppio). L’aumento delle morti è legato proprio al cambiamento delle rotte: al fine di evitare quei pattugliamenti che respingono verso i porti di partenza, le rotte passano sempre più a largo: ormai si passano 3,4,5 giorni in mare, sono imbarcazioni che partono addirittura dall’Egitto. E questo come mai? Perché non si mette mano da un lato alla possibilità di viaggiare regolarmente da sud verso nord, dall’altro non si mette mano alla riapertura dei corridoi umanitari per i rifugiati (che non hanno nessun altro modo per chiedere asilo in Europa se non quello di rischiare la vita nel canale di Sicilia). Gli interessi in questi paesi, nei paesi della riva sud, rispetto al fenomeno? Più che di interesse, parlerei di disinteresse (nel senso che fino a poco tempo fa non c’era nessun interesse). Era un fenomeno che non faceva rumore, un transito: da quei paesi ci si imbarcava verso l’Europa, le organizzazioni criminali locali guadagnavano anche cifre consistenti (parliamo di un giro di affari di milioni di euro rispetto alle traversate). Quello che sta facendo oggi l’Europa è chiedere ai paesi della riva sud di contrastare il fenomeno, ovvero di arrestare - durante le retate che vengono fatte nelle capitali di questi paesi - le persone candidate a partire. Questo da un lato può avere l’effetto di ridurre il numero degli arrivi in Europa, ma dall’altro lato non si può non parlare degli effetti negativi e degli effetti collaterali. L’Europa sta cooperando con polizie e con regimi come quelli di Gheddafi, di Mubarak e di Ben Alì (personaggi decisamente poco democratici) alle cui polizie, addestrate da decenni alla tortura, affidiamo il trattamento non soltanto degli emigranti economici ma anche e soprattutto dei rifugiati politici. Dalla Libia noi abbiamo notizie di rifugiati politici eritrei (sono almeno 700) che sono detenuti da tre anni in carcere in condizioni inumane, non hanno nessuna prospettiva davanti se non quella di marcire in quelle carcere visto che in Libia non esiste nessun riconoscimento del diritto di asilo. Non basta chiedere ai paesi della riva sud di non far partire queste persone, bisognerebbe anche capire poi quale fine fanno lì.


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Costa d'Avorio: i rifiuti tossici delle multinazionali

da www.perfettaletizia.blogspot.com

I documenti raccolti dalla ‘Bbc’ mostrano in dettaglio e per la prima volta la natura potenzialmente letale dei rifiuti tossici scaricati nel più povero dei paesi dell’Africa occidentale

Agenzia Misna - “Il più grande scandalo di smaltimento illegale di rifiuti tossici del XXI secolo, proprio il tipo di vandalismo ambientale che i trattati internazionali dovrebbero prevenire”: così comincia un servizio pubblicato dall’inglese ‘Bbc’ – dal titolo ‘Sporchi trucchi e rifiuti tossici in Costa d’Avorio - sul caso ‘Probo Koala’, la nave cargo che nel 2006 scaricò illegalmente nel porto di Abidjan 528 tonnellate di scorie pericolose. I documenti raccolti dalla ‘Bbc’ mostrano in dettaglio e per la prima volta la natura potenzialmente letale dei rifiuti tossici scaricati nel più povero dei paesi dell’Africa occidentale e per la quale la multinazionale Trafigura – con basi in Olanda e Inghilterra - è sotto processo all’Alta corte di Londra. In base ai risultati dell’inchiesta della Bbc, i rifiuti scaricati illegalmente ad Abidjan includevano: tonnellate di fenolo che al contatto può causare la morte; tonnellate di idrogeno solfito, letale se inalato ad alte concentrazioni; vaste quantità di soda caustica e di mercaptani, i composti organici più maleodoranti in assoluto. “Trafigura – scrive la Bbc – ha sempre negato la presenza di rifiuti chimici pericolosi, eppure abbiamo potuto vedere un’analisi fatta dalle autorità olandesi che dimostra il contrario”. Proprio ad Amsterdam, i rifiuti della nave ‘Probo Koala’ prodotti da Trafigura avrebbero potuto essere smaltiti in sicurezza: “La società Trafigura ha invece optato per la più economica soluzione di Abidjan” scrive ancora la Bbc. Così, nella notte tra il 19 e 20 agosto 2006, il carico letale della ‘Probo Koala’ venne scaricato ad Abidjan e smistato in 16 diverse zone della città causando nei mesi successivi la morte di 17 persone e l’intossicazione di altre migliaia. Lo scorso febbraio, La società ‘Amsterdam port services’ (Aps), specializzata nel ritiro di rifiuti, è stata condannata da un tribunale olandese a pagare una multa di 450.000 euro per il suo coinvolgimento nel caso. In precedenza un tribunale ivoriano aveva condannato il responsabile di una società locale che aveva provveduto a sbarcare i rifiuti. Tuttavia, nessun dirigente della Trafigura, che aveva noleggiato la ‘Probo Koala’, è stato invece processato: grazie a un patteggiamento concordato con le autorità ivoriane, la Trafigura versando al governo della Costa d’Avorio 152 milioni di euro ha ottenuto in cambio la rinuncia a qualsiasi azione legale presente e futura. Sul caso resta però aperta l’inchiesta della magistratura inglese.


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venerdì 8 maggio 2009

LA ROCCHETTA OFFENDE TUTTE, BELLE E BRUTTE

Per chi non sapesse nulla di Boschetto e Rio Fergia, ecco un altro buon motivo per boicottare l’acqua Rocchetta e tutti i suoi derivati. Abbiamo dovuto subire pubblicità di ogni tipo, ma l’ultima pubblicità di Rocchetta fa davvero venir voglia di piangere. E poi di vomitare. Due camerini, in uno una Miss e nell’altro una ragazza per così dire “brutta”, un gruppetto di vipere travestite da amiche che le aspetta fuori. Esce la Brutta, e le amiche in coro: DEPURATI! Esce la Miss, e lo stesso coretto esclama con voce mielosa: DEPURATA! Vi risparmio altri dettagli.
Questa pubblicità è solo una delle tante manifestazioni del sessismo che regna ancora nella nostra società, nonostante anni di coraggiose e pazienti lotte per la parità dei sessi.
Noi, donne, siamo stanche di essere trattate come giocattoli o come modellini da collezione. Siamo stanche di DEPURARCI, crediamo di essere già abbastanza pure così, come madre Natura ci ha fatte. Siamo stanche di essere PULITE DENTRO E BELLE FUORI, crediamo che sia più importante essere BELLE dentro e (non necessariamente) pulite fuori. Siamo stanche di vedere la bellezza morire nelle pagine patinate di una rivista di moda, e siamo stanche di dover nascondere la NOSTRA bellezza sotto strati di trucco, di silicone e di plastica. E credo che anche voi, cari uomini, fareste bene a stancarvi di tutti questa carne da macello, di tutta questa bellezza meccanica e stereotipata che non ha nulla a che vedere con la vera Bellezza.
Riprendiamoci la Bellezza, in tutte le sue imprevedibili sfumature. E smettiamola di depurarci con la Rocchetta.
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giovedì 7 maggio 2009

GESTIONE DEI RIFIUTI:UN PROBLEMA O UN'OCCASIONE DI RISORSE?

Segnaliamo questo convegno organizzato dal Comitato Pro Acqua Gualdo che si terrà sabato 23 Maggio 2009, alle ore 15.00, presso Scuola Media “Franco Storelli” di Gualdo Tadino.



dal sito http://comitatoproacquagualdo.blogspot.com/
Come Comitato cittadino, sorto a difesa dell’acqua e dell’ambiente, la nostra attenzione è stata attirata dal Piano Regionale dei Rifiuti dell’Umbria recentemente approvato, il quale prevede, quale chiusura del ciclo integrato dei rifiuti, la “termovalorizzazione”(cioè l’incenerimento).

In che misura l’inceneritore incide sulla salute della popolazione e sull’ambiente?
Esistono modi alternativi validi di trattare i rifiuti?
Modi che tutelino la salute dei cittadini e l’ambiente?
Modi che non incidano sui costi della comunità, ma che possano invece rappresentare una vera risorsa del territorio?
Può nascere una simile realtà nella NOSTRA CITTA’nonostante il Piano Regionale?

Questo incontro, organizzato con Esperti Nazionali ed Europei del settore trattamento rifiuti e del suo rapporto con la salute e l’ambiente, ha lo scopo e la pretesa di voler rispondere a tutte queste domande ed altre ancora.
Attraverso l’approfondimento del tema si vuol fornire alla popolazione una visione completa della problematica e delle alternative moderne ed innovative che riescono a trasformare il rifiuto in una RISORSA e NON UN COSTO per i Comuni salvaguardando la salute dei cittadini e l’ambiente, sulla scia di tanti Comuni o Consorzi di Comuni che stanno adottando questo tipo di scelte su tutto il territorio Nazionale.

Di seguito il programma:


Gestione dei rifiuti:
un problema o un’occasione di risorse?

Convegno organizzato dal Comitato Pro Acqua Gualdo
Sabato 23 Maggio 2009, ore 15.00

Aula Magna – Scuola Media “Franco Storelli”
Gualdo Tadino (PG)

Programma dei lavori:

Ore 15.00 Apertura del lavori – Introduzione

Ore 15.15 Ambiente e Salute: Quali problematiche per la salute dalla combustione dei rifiuti
Dr. Giovanni Vantaggi - Referente per l’Umbria Associazione Medici per l’Ambiente
(ISDE –Italia) www.isde.it
Ore 15.45 Rifiuto come Risorsa: Esperienza di utilizzo del materiale post-consumo in Italia
Dr.ssa Carla Poli – Amm. Delegata del Centro Riciclo Vedelago www.centroriciclo.com

Ore 16,30 Riuso del Rifiuto: Progetto RCA - Publink (R Bruzzechèsse, M Vantaggi, M Zanchi )
come tre giovani hanno “inventato” la possibilità del Riutilizzo del Rifiuto

Ore 16.45 Dibattito / Discussione aperta – Conclusione dei lavori

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Incontro con Gabriele Del Grande

Guarda intervista di Socialmente Giovani a Gabriele Del Grande

In allegato la locandina della prossima iniziativa del circolo culturale "primomaggio", "Un cimitero chiamato Sahara" con il giornalista Gabriele Del Grande, autore del libro "Mamadou va a morire".L'incontro, promosso in collaborazione con l'associazione IL PETTIROSSO di Terni, si svolgerà mercoledì 13 maggio, alle ore 21, presso la Sala Consiliare del Comune di Bastia Umbra.


Gabriele Del Grande, nato a Lucca nel 1982, ha vissuto e lavorato prima a Roma, realizzando reportage per l'agenzia stampa Redattore Sociale, poi in Sicilia, da dove continua a seguire l'osservatorio sulle vittime delle frontiere Fortress Europe (http://fortresseurope.blogspot.com). Il suo blog è una finestra aperta sulle rotte dell'immigrazione clandestina, una denuncia documentata degli accordi e dei programmi di contrasto della mobilità e del diritto di fuga. Anno dopo anno il suo lavoro lo porta a segnare sulla carta geografica le rotte dei migranti in Turchia, Grecia, Tunisia, Marocco, Sahara Occidentale, Mauritania, Mali, Niger, Burkina-Faso e Senegal. Da questo lavoro è tratta la sua prima opera: "Mamadou va a morire" (2007), già tradotto in molte lingue. Un viaggiare lungo le frontiere che iscrive la sua opera di inchiesta e di denuncia, di ciò che accade lontano dai riflettori dell'informazione, nelle azioni di resistenza alla rassegnazione. Nelle sue parole non c'è solo il racconto in presa diretta di un testimone, ma ci sono le storie di rifugiati e di giovani migranti, il cui sogno si è infranto lungo le piste del Sahara o nei fondali marini. Racconti e vite che chiedono di non essere rimossi, che chiedono giustizia per chi è ancora vivo.

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