Pubblico esultante, applausi scroscianti e gran finale, tutti in piedi e sorridenti, per salutare Marco Paolini sotto le luci del Teatro Clarici di Foligno, appena riaccese a fine spettacolo ieri sera. Nelle prime file della platea una squadra di giovani rugbisti entusiasti: “magari qualche volta andateci, a vedere le partite!” suggerisce il regista, autore e attore teatrale, al pubblico in sala. Perché nel suo “Album d’aprile”, il rugby gioca un ruolo fondamentale. Più della storia, più delle ideologie, più dell’amore. Tutto inizia con i Joe Division di “Love will tear us apart”, con l’odore di sifcamina, con la squadra e il fattore terra, cioè “i metri da conquistare”.
Nel microcosmo di provincia, raccontato dall’artista veneto, non sono le ideologie ma i luoghi e le persone i veri dispensatori d’identità. C’è il campo da rugby, il bar Iole, la sede del Circolo primo maggio e la piazza, in ordine d’importanza. C’è Don Tarcisio, prete operaio sospeso a divinis, i compagni di squadra, quelli del Circolo, i “metalmezzadri” che riempiono le città, e il mondo perfetto del Bar della Iole, la “giovane partigiana del Triveneto” che prima faceva il mestiere e poi con la sua bella collana ci ha aperto un bar.
Sono gli anni dell’impegno, degli scontri di piazza, gli anni delle bombe: quella a piazza Fontana, quando Nicola, il giovane protagonista di “Album d'Aprile”, andava ancora alle medie, e quella a piazza delle Logge. Un giorno va addirittura a visitarle quelle piazze. Un piccolo gruppo di ragazzi di provincia davanti ad un gigantesco capitolo di storia. Quel giorno di maggio a Brescia pioveva, la gente si era accalcata sotto le logge. Ed è lì che venne messa la bomba, dentro ad un cestino di rifiuti. Momenti che scolpiscono la memoria ma che sono subito incalzati da una quotidianità fatta di riunioni scrupolosamente protocollate, di striscioni da preparare e pennarelli “da rubare alla standa”. Il compagno incaricato si rifiuta, non ha mai rubato. “Ruba!” è l’imperativo categorico ripetuto goliardicamente dai compagni.
L’umorismo di Paolini, fra parodia e burla, come il suo teatro colpisce per il carico di fisicità, di vivace e pulsante umanità. Esiste una memoria condivisa? La risposta di Paolini è nella sua narrazione che fugge l’astrazione e diventa condivisione dell’intimo.
Sulle ballate di Bob Dylan, interpretate magnificamente da Lorenzo Monguzzi, che ha curato le musiche dello spettacolo, aleggiano incessantemente olio canforato e sifcamina, l'odore degli spogliatoi. Uno dei compagni di rugby e di lotta finirà in ospedale, pestato dalla “celere”.
La cronaca di quell’aprile parla, inequivocabilmente, di una sconfitta. Ma è la bala-omo, una metafora rugbystica, a fornire le dimensioni del vero fallimento: il giocatore inseguito dai pericolosi avversari cede la palla, scaricandosi di ogni responsabilità. E la bala-omo, la conosciamo tutti, “è lo sport nazionale di chiamarsi fuori”.
Nel microcosmo di provincia, raccontato dall’artista veneto, non sono le ideologie ma i luoghi e le persone i veri dispensatori d’identità. C’è il campo da rugby, il bar Iole, la sede del Circolo primo maggio e la piazza, in ordine d’importanza. C’è Don Tarcisio, prete operaio sospeso a divinis, i compagni di squadra, quelli del Circolo, i “metalmezzadri” che riempiono le città, e il mondo perfetto del Bar della Iole, la “giovane partigiana del Triveneto” che prima faceva il mestiere e poi con la sua bella collana ci ha aperto un bar.
Sono gli anni dell’impegno, degli scontri di piazza, gli anni delle bombe: quella a piazza Fontana, quando Nicola, il giovane protagonista di “Album d'Aprile”, andava ancora alle medie, e quella a piazza delle Logge. Un giorno va addirittura a visitarle quelle piazze. Un piccolo gruppo di ragazzi di provincia davanti ad un gigantesco capitolo di storia. Quel giorno di maggio a Brescia pioveva, la gente si era accalcata sotto le logge. Ed è lì che venne messa la bomba, dentro ad un cestino di rifiuti. Momenti che scolpiscono la memoria ma che sono subito incalzati da una quotidianità fatta di riunioni scrupolosamente protocollate, di striscioni da preparare e pennarelli “da rubare alla standa”. Il compagno incaricato si rifiuta, non ha mai rubato. “Ruba!” è l’imperativo categorico ripetuto goliardicamente dai compagni.
L’umorismo di Paolini, fra parodia e burla, come il suo teatro colpisce per il carico di fisicità, di vivace e pulsante umanità. Esiste una memoria condivisa? La risposta di Paolini è nella sua narrazione che fugge l’astrazione e diventa condivisione dell’intimo.
Sulle ballate di Bob Dylan, interpretate magnificamente da Lorenzo Monguzzi, che ha curato le musiche dello spettacolo, aleggiano incessantemente olio canforato e sifcamina, l'odore degli spogliatoi. Uno dei compagni di rugby e di lotta finirà in ospedale, pestato dalla “celere”.
La cronaca di quell’aprile parla, inequivocabilmente, di una sconfitta. Ma è la bala-omo, una metafora rugbystica, a fornire le dimensioni del vero fallimento: il giocatore inseguito dai pericolosi avversari cede la palla, scaricandosi di ogni responsabilità. E la bala-omo, la conosciamo tutti, “è lo sport nazionale di chiamarsi fuori”.
di Isabella Rossi
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