giovedì 19 giugno 2008

Tremonti, il mostro mite e l'economia - Alfonso Gianni


Le anticipazioni sul piano triennale da 35 miliardi di euro fornite da Silvio Berlusconi e da Giulio Tremonti, negli incontri con le massime autorità dello Stato, con la stampa e infine con le parti sociali, autorizzano a qualche considerazione in più che non sia limitata alla pura politica economica. Leggendo le notizie delle agenzie viene inesorabilmente alla mente il recentissimo dibattito sviluppatosi, anche sulle colonne di questo giornale, sulla natura del nuovo regime berlusconiano.
Mi schiero dalla parte di chi considera che gridare ad un nuovo fascismo sia un fuor d'opera. "Annibale non è alle porte", ha scritto saggiamente Mario Tronti. Siamo di fronte piuttosto ad un "regime leggero", come ha recentemente detto Fausto Bertinotti, un modello di repubblica a-fascista soprattutto perché a-antifascista. Ciò non toglie che il nuovo governo si muova solertemente per separare lo Stato dal diritto, per fare dello Stato d'eccezione la normalità imperante. Siamo di fronte a un "Mostro mite", come Raffaele Simone - in un recente saggio - ha felicemente definito il nuovo paradigma culturale delle destre, mutuando l'espressione da Tocqueville in contrapposizione alla legnosa aggressività del Leviatano di hobbsiana memoria.
Sia pure. Ma questo "mostro mite" non agisce solo sul terreno della restrizione delle libertà, ma anche su quello dell'economia e del suo sistema di governo. E' singolare - ma forse non tanto visto lo stato miserevole nel quale versa l'opposizione nel nostro paese dopo l'esito elettorale - che a rilevarlo sia solo il giornale della Confindustria.
Dietro il meccanismo economico vi è un disegno politico ambizioso che consiste nello stabilire una nuova costituzione materiale che vede l'assoluto primato del ministro dell'Economia nella compagine governativa e rispetto al Parlamento ridotto ad un convitato di pietra. Intendiamoci, non è solo farina del sacco di Tremonti.
Come abbiamo già osservato il nuovo governo si muove nel solco del precedente. La riduzione forzata del deficit è l'obiettivo conclamato e inviolabile e vi è una corrispondenza tra Tremonti e Padoa Schioppa persino sui tempi di realizzazione e negli obiettivi intermedi.
La stessa accentuazione dei compiti del ministero dell'economia nella compagine governativa e rispetto alle prerogative del Parlamento era già intervenuta con il governo Prodi. Ma certo in questo percorso il nuovo ministro dell'Economia ci mette del suo e tanto. La stessa scelta di investire sulla dimensione triennale e rigidamente scadenzato del piano (35 miliardi, di cui 13,1 per il 2009) dà il segno del carattere autoritario della manovra.
Ma ciò che precisa questo carattere è il suo contenuto. Ciò che viene programmata non è la crescita - sia pure in senso squisitamente capitalistico -, dunque non siamo di fronte a una nuova esperienza di programmazione economica sia pure solo dall'alto. Ciò che viene deciso e programmato nel tempo è il taglio feroce della spesa individuato come unico mezzo per raggiungere il fine rappresentato dalla riduzione forzata del debito pubblico.
E' su questo versante che il ministro dell'Economia stabilisce il suo comando sull'intera politica economica del governo al punto che lo stesso premier Berlusconi ne appare più il portavoce che non il primo ispiratore. Il metodo Gordon Brown risulta così sublimato e il mostro mite, direbbe Tocqueville, può così "degradare gli uomini senza tormentarli".
Anzi la manovra tremontiana si riveste anche di antipolitica, i tagli ai ministeri (ovvero alle spese per il loro concreto funzionamento) e, seppure con scelte assai poco nitide, di giustizialismo sociale, le riduzioni delle stock options o la cosiddetta Robin tax, cioè la tassazione delle plusvalenze sulla vendita delle scorte petrolifere. Sul piano dello sviluppo la scelta principe, anche se improbabile dal punto di vista realizzativo, è riservata al nucleare e alle famigerate infrastrutture, ovvero le grandi opere, confermando in pieno il ritorno dell'intervento statale in soccorso ad un neoliberismo che non funziona.
Ma, per ridare fiato ai centri di potere economico nel territorio, si vuole anche riportare in auge quel disegno di legge Lanzillotta sulla privatizzazione dei servizi pubblici che la sinistra radicale aveva stoppato nella passata legislatura. Sul piano del lavoro, in attesa che la micidiale direttiva europea sull'innalzamento a 60 ore settimanali dell'orario di lavoro faccia il suo corso, si pensa di reintrodurre il lavoro a chiamata - l'unica cancellazione operata dal precedente governo alla legge 30 -, di cancellare le limitazioni al contratto a termine e persino eliminare quella norma di iniziativa parlamentare che poteva impedire l'imbroglio delle dimissioni in bianco. Ovvero più lavoro per chi già ce l'ha e più precarietà per tutte e per tutti.
Non si può dire che a Tremonti manchi la coerenza. Nel suo più recente saggio aveva scritto che il vero liberalismo (che il ministro del tutto arbitrariamente contrappone al mercatismo) "si iscrive nel quadrante delimitato da quattro concetti fondamentali: libertà, proprietà, autorità e responsabilità".

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