giovedì 19 giugno 2008

La first lady della Nazionale: «I clandestini vanno accolti»


Lo sbarco in Italia? «Complicato»
«Il primo permesso di soggiorno me lo fecero che scadeva un mese prima della fine della trasmissione "Torno sabato". Mi ritrovai la notte di Natale in questura con un certificato medico». Un certificato medico? «Si faceva così se volevi tornare in patria e rientrare: col permesso scaduto, cominciavi una cura medica e per proseguirla ti dovevano far rientrare per forza». Una bella furbata. Finita la cura? «Sono stata sei mesi sans papier». E dire che a rispondere a queste domande non è certo una migrante qualsiasi, ma la "neofirstlady" della Nazionale. Lei è Alena Seredova, 30 anni, un figlio, "compagna" del portiere juventino Gigi Buffon. Eppure la sua storia a lieto fine è cominciata così, con il duro percorso che tocca a tutti coloro che giungono in Italia. E sì che proprio da clandestina ha vissuto anche Seredova. «Un po' un'assurdità - svela in un'intervista al Corriere - una vera assurdità essere clandestini quando il mio lavoro è pubblico - racconta - ma per strada quando incrociavo dei poliziotti temevo che mi fermassero. Mi veniva da piangere. E per un po' sono andata avanti con un permesso da collaboratrice domestica che mi hanno fatto in questura a Milano». Scherzi? (chiede il cronista,dr) «No. Guarda che con il passaporto ceco ancora oggi è un casino. In America una volta ho pensato che mi volessero addirittura disinfettare». E invece? «Mi avevano spruzzato il liquido per individuare gli esplosivi».
Sai che ora in Italia si vuole introdurre l'aggravante della clandestinità? «Sì. E se è vero quel che dicono i tg, che la maggior parte dei reati è commessa da extracomunitari, un po' è giusto. Però credo anche che delle persone che scappano dalla miseria per venire in Italia a lavorare e rischiano la pelle con quelle traversate sui gommoni, andrebbero accolte».
Se potessi votare in Italia - conclude il giornalista - che cosa voteresti? «Mi piace Fini. Non condivido tutto quel che dice, ma è quello che capisco meglio».

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