martedì 22 settembre 2009

"Requiem in frac", di Riccardo Lestini

Inizia oggi la collaborazione al nostro progetto del giovane artista passignanese Riccardo Lestini. Scrittore, attore e regista teatrale, Lestini è stato protagonista di numerose tournèe in giro per l'Italia. Nel 2002, con il suo monologo "Genova Libera", ha aperto i concerti dei Modena City Ramblers, nel corso del "Radio Rebelde Tour". Altre collaborazioni sono state realizzate con artisti del calibro di Ascanio Celestini e del gruppo musicale spagnolo Ska-P. Le sue opere traggono origine da una profonda partecipazione civile da parte dell'autore, che si manifesta in testi e dialoghi estremamenti intensi e attuali. Recentemente, il nome di Riccardo Lestini si è legato allo spettacolo "Con il tuo sasso", apprezzato monologo teatrale ispirato ai fatti del G8 di Genova e alla morte di Carlo Giuliani. Socialmente Giovani non può che ringraziare Riccardo per la sua disponibilità.

Un tempo, quando ancora sragionava ad alta voce terrorizzando e divertendo i pendolari che ogni mattina riempivano la banchina della piccola stazione, lo chiamavano Zac.
Poi passarono gli anni, lui invecchiò prima e peggio di qualsiasi altro, smise di urlare e nessuno lo chiamò più. Per i più giovani, quelli che nemmeno ricordavano i tempi in cui saltellando batteva i palmi delle mani contro i finestrini dei treni in partenza, era semplicemente il vecchio grasso e unto della stazione, quello che ogni notte stendeva tappeti di cartone e che ogni tanto lasciava fuori dalla sala d’aspetto chiazze di vomito giallognolo misto a pezzi di pane secco. Forse secoli prima, prima di tutto questo, prima di smettere di parlare e prima ancora di essere Zac, aveva pur avuto una qualche vita, una casa con porte e finestre e magari anche un amore, ma lui per primo non riusciva a ricordarsene.

Quella mattina c’era un sole tenue e gentile che scaldava appena, il cielo era limpido e lui capì che era arrivato il momento di morire. La sera prima, quando una donna dagli occhi neri gli aveva lasciato due buste con dentro tre maglioni per la notte, aveva preso quella gentilezza inaspettata come un presagio inequivocabile. Avrebbe voluto commuoversi e ringraziarla, dirle sei un angelo e addormentarsi innamorandosi di lei. Ma erano anni ormai che aveva smarrito la voce chissà dove e chissà come. Provò allora a dirglielo con gli occhi e lei sembrò capire, rispondendo con un sorriso.
Poi si svegliò, vide quel sole così maledettamente alto e non ebbe più alcun dubbio: era arrivato il suo momento.
Alla stazione non c’era molta gente. Una ragazza magra e occhialuta sedeva sulla panchina sfogliando nervosamente un giornale, quattro uomini a capannello discutevano animatamente e una signora stava appoggiata al muro rovistando dentro la sua borsa alla ricerca di chissà cosa. Più avanti c’era altra gente, ma i suoi occhi già iniziavano ad appannarsi e non riusciva a distinguere niente e nessuno.
Pensò di doverlo dire a qualcuno. In fondo non è proprio cosa di tutti i giorni, morire. Raccolse le ultime forze che gli restavano e barcollando fece qualche metro. Col cuore a pezzi e il respiro sfinito si appoggiò allo schienale della panchina, guardò la ragazza occhialuta, gli incollò gli occhi addosso, ma lei non si voltò. Allora si concentrò, prese tutto il fiato che ancora serbava nei polmoni e il miracolo successe: dopo anni di silenzio gli uscì finalmente la voce, cavernosa ma netta e inequivocabile. Disse: “Signorina, mi scusi, sto morendo…”. Ma la ragazza parve non sentirlo. Pensò di averlo detto troppo piano e si sforzò di dirlo più forte: “Signorina…sto morendo…”. Niente, l’occhialuta continuò a sfogliare quel maledetto giornale.
Si riposò qualche istante e poi riprese a camminare. Sentì le gambe che lentamente lo abbandonavano, lottò contro l’irresistibile desiderio di lasciarsi cadere a terra e farla subito finita e riuscì a vincere, raggiungendo i quattro uomini impegnati nella loro discussione. Questa volta scandì ancor di più le parole: “Scusate, sto morendo…”. Nessuno dei quattro gli rispose. Allora girò i tacchi e andò dalla signora con la borsa. Le fu vicinissimo, praticamente a un palmo, e quasi appoggiandosi addosso disse ancora: “Sto morendo!”. Ma la signora, senza batter ciglio, prese dalla borsa il telefonino e si mise a telefonare.
Poi venne il suono della campanella ad annunciare l’arrivo del treno. Non gli restava ormai troppo tempo: ancora qualche istante e il treno avrebbe rapito tutta quella gente, desertificando la stazione e lasciandolo solo. E nessuno avrebbe saputo. Quasi strisciando si trascinò da quelle persone lontane che faceva fatica a mettere a fuoco. Quanti erano? Cinque, dieci, venti…non riusciva a capirlo. Chi erano? Non aveva importanza, erano lì e dovevano saperlo. Disse per l’ennesima volta: “Sto morendo”, poi ancora “Sto morendo” e di nuovo “Sto morendo”. Nessuno riuscì a sentirlo. Il tintinnare della campanella si fece sempre più insistente fino a mescolarsi con lo sbuffo del treno in arrivo e la frenata stridula sulle rotaie. C’era troppo rumore e allora iniziò a urlare, proprio come un tempo, quando ancora era Zac e tutti si voltavano a guardarlo. Urlò “Sto morendo” un milione di volte, quasi disperato e quasi piangente, forse dibattendosi e sicuramente implorando.
Eppure nessuno si voltò, tutti salirono ordinatamente sul treno che ripartì in perfetto orario.

Lui rimase lì, sudicio e sfinito e solo, completamente solo.
Ma poi si guardò e si stupì di essere ancora in piedi. Non solo. Improvvisamente lo avvolse la strana sensazione di non essere mai stato così bene. Le gambe che fino a poco prima sembravano sgretolarsi a terra erano toniche e salde, mentre il respiro flebile e quasi impercettibile adesso era diventato pulito e regolare. E, soprattutto, nessun rumore attorno a lui. Il treno si allontanava piano senza emettere alcun suono, era cessato il vento e qualsiasi rumore di sottofondo sembrava sparito.
Non se ne preoccupò e a passo spedito raggiunse i bagni della stazione. Entrò e si accorse che anche gli odori non esistevano più. Dentro quei cessi luridi e malandati come d’incanto era sparito il tanfo di vomito, e i rivoli di piscio malato incastrati alle mattonelle sbeccate non avevano alcun odore.
Aprì la porta della latrina centrale, e sopra la turca rigata di merda, su una stampella delicatamente retta da un chiodo c’era un frac con tanto di guanti, cilindro e bastone. Proprio della sua misura.
Iniziò a spogliarsi piano piano. Si tolse strati di maglioni bucati e pantaloni marciti graffiando le croste di sudicio decennale, ma non sentì alcun dolore. Rimase in mutande e con una grazia che non sapeva nemmeno di avere si infilò il frac. Calzò infine i guanti bianchi e mise in testa il cilindro. Era bellissimo e maledettamente naturale, come se per tutta la vita non avesse fatto altro che indossare quell’abito così scintillante.
Prima di prendere il bastone, pensò che mancava qualcosa. A terra, proprio sotto il lavandino incrostato di sputi e disperazioni d’ogni sorta, c’era uno splendido fiorellino bianco. Lo raccolse con due dita, delicatamente per non fargli troppo male. Se lo appuntò all’occhiello e sorrise guardandosi nello specchio opaco e in frantumi.
Alla fine prese il bastone, e facendolo roteare nel vuoto spinse la porta con l’altra mano per uscire dai bagni.
Ma fuori la stazione era sparita. C’era un lungo viale alberato, un cielo bianchissimo e, alla sua sinistra, un fiume che scorreva lento e sonnacchioso. Non ebbe nemmeno bisogno di pensarci: conosceva quel posto, c’era stato un’infinità di volte. Non importava quando, lo conosceva a memoria e questo bastava.
Accennò un passo di danza, e sapendo esattamente dove doveva andare sparì lentamente saltellando tra gli alberi.

Quella sera faceva freddo. Al ritorno i pendolari scesero dal treno alzando il bavero dei giubbotti o stringendosi le braccia alla vita per scaldarsi.
Tutti senza dirselo pensarono che l’estate ormai era finita, era arrivato l’autunno e sarebbe ricominciato il solito tran tran.
Accelerarono il passo perché era quasi ora di cena.
Passando spediti e improvvisamente infreddoliti nessuno fece caso a lui, come sempre sdraiato sui suoi cartoni infradiciati, come sempre sudicio, immobile e puzzolente.
Nessuno fece caso a lui che, chissà da quanto tempo, era morto con un sorriso a solcargli il volto.

RICCARDO LESTINI, 2009

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