martedì 25 agosto 2009

Viaggio in Terra Santa

Guarda le qui le foto del viaggio di Alessandra e Gabriele

Terra Santa. Minuscola regione del Medio Oriente, incastonata nelle vicinanze del fiume Giordano e del Mar Morto, lembo di territorio che, nel giro di pochi chilometri, condensa la sacralità delle tre grandi religioni monoteistiche della civiltà occidentale. Terra oggi contesa e combattuta, dilaniata e ferita da mille lutti e distruzioni, laddove la pace dovrebbe avere sua dimora naturale; e ciò nonostante, culla di spiritualità primordiale, in cui istintivamente buona parte dell’umanità ricerca le proprie radici profonde. Di Terra Santa abbiamo parlato con Alessandra Perticoni e Gabriele Pinca, due giovani volontari dell’Azione Cattolica Italiana, entrambi residenti nel comune di Assisi. Da poco tornati da un viaggio di tre settimane in Medio Oriente, Alessandra e Gabriele si sono gentilmente sottoposti ad un’intensa “torchiatura” in cui abbiamo cercato di carpire le emozioni e i momenti di crescita che un’esperienza tanto significativa ha saputo fornire.

Il viaggio della coppia è avvenuto all’interno di un progetto avviato due anni fa dal FIAC, il ramo internazionale dell'Azione Cattolica; il nome eloquente del progetto, “Costruiamo Ponti e non Muri” richiama alla necessità di edificare in Medio Oriente una cultura della pace che unisca e non divida le popolazioni e le religioni presenti in Terra Santa. In questo contesto, vengono promosse attività di scambio tra giovani provenienti da tutto il mondo con coetanei israeliani e palestinesi, in modo tale da instaurare rapporti di comprensione reciproca e di solidarietà. Alessandra e Gabriele hanno trascorso buona parte dell’esperienza come volontari a Betlemme, prima in un campo scuola e poi in un centro per bambini gestito da suore. Nel corso delle tre settimane hanno comunque visitato numerose città sia in Israele che in Cisgiordania (non è stata invece toccata la striscia di Gaza che attualmente è zona pressoché offlimits per i civili); e durante la traversata hanno avuto modo di vedere, oltre alle usuali attrazione turistiche e ai luoghi di culto, anche altre strutture di accoglienza presenti nel territorio.

Dalla lunga chiacchierata, sono emersi interessanti spunti di riflessione; il più rilevante dei quali, probabilmente, riguarda la situazione di tensione tra la popolazione israeliana e quella araba. E da questo punto di vista, il quadro delineatosi non sembra certo essere dei migliori. Tra Israeliani e Palestinesi infatti sembra esserci pochissima disponibilità al dialogo, con posizioni da entrambe le parti molto rigide e di difficile conciliazione. Se infatti gli Ebrei ritengono – senza troppi giri di parole – che la terra d’Israele è per diritto divino loro esclusiva proprietà, i Palestinesi non sono affatto disposti a lasciare un territorio su cui vivono da duemila anni. In questo contesto si sono creati, nel corso del tempo, odi e rancori molto difficili da sopire. La situazione si è inoltre ulteriormente stigmatizzata da quando, dal 2003, è stata completata l’installazione del muro di separazione tra Israele e i territori controllati dalle autorità arabe. Una barriera, a detta dei nostri amici, assolutamente impressionante e sconvolgente; la costruzione, che si estende per oltre 700 km e ha un’altezza media di oltre 8 metri, è costellata da continui posti di blocco armati che rendono i passaggi dei veri labirinti sotto l’inquietante sguardo dell’esercito israeliano. I Palestinesi che hanno il proprio posto di lavoro in Israele, sono costretti a svegliarsi alle 4 o alle 5 del mattino per superare gli interminabili controlli ai checkpoint. Il rilascio di un permesso può durare giorni e comunque il passaggio non è necessariamente garantito (a volte può dipendere anche dagli umori che i soldati israeliani hanno in quel particolare momento).

La popolazione araba, molto più svantaggiata rispetto a quella israeliana da ogni punto di vista, sostiene ogni giorno sulle proprie spalle un pesante fardello di difficoltà quotidiane. La scarsità dei generi alimentari nei negozi, le condizioni igienico-sanitarie deficitarie, le città sporche e mal curate, le telecomunicazioni che si interrompono non appena si varca il confine, sono tutti aspetti di un scenario drammatico che sembra non avere mai fine. E seppure la situazione generale sia relativamente tranquilla, la Cisgiordania continua comunque a subire operazioni militari a bassa intensità da parte dell’esercito israeliano, come a voler mantenere alta la pressione psicologica nei confronti dei civili. D’altra parte, sembra ancora molto lontana una definitiva risoluzione di quello che è l’annoso problema dei coloni israeliani, i quali occupano abusivamente terreni che - secondo gli accordi internazionali - dovrebbero essere sotto la giurisdizione palestinese. A questo proposito, Alessandra e Gabriele sono stati testimoni di una realtà inquietante ma molto significativa. Nella città di Hebron, i coloni ebraici risiedono in dei palazzi adiacenti alle case e alle strade dove si svolge la vita della comunità araba. Da questi palazzi – che sovrastano in altezza le abitazioni palestinesi – gli Israeliani lanciano in segno di scherno i propri rifiuti verso i “nemici” arabi. Per difendersi, sono state montate delle reti che raccolgono tutto ciò che viene gettato, dalle bucce d’arancio agli oggetti metallici...

E malgrado gli stenti e la precarietà di un’esistenza così complicata, i Palestinesi resistono, con grande compostezza. Non cedono alle pressioni e alle provocazioni dell’esercito e dei coloni ebraici. Non vendono le loro case nelle zone di confine, nonostante lucrose offerte economiche, per non permettere l’avanzamento in territorio palestinese degli insediamenti israeliani. Alessandra e Gabriele hanno sottolineato a più riprese la dignità della resistenza della popolazione araba, aggiungendo come questa opposizione avvenga senza comunque mai perdere il sorriso. Entrambi sono rimasti molto colpiti dalla loro accoglienza calorosa verso gli ospiti e da come, a dispetto di tutto, non perdano occasione di organizzare feste o situazioni conviviali. I due ragazzi ci hanno descritto un’immagine emblematica di questo legame alla vita che hanno i Palestinesi: in uno degli innumerevoli murales dipinti lungo la barriera di separazione, era disegnata una serie di ceppi di alberi e poi un muro circolare dentro il quale era rappresentato un altro albero, questa volta in dimensioni intere, appeso al quale vi era un gran numero di regali. Come a dire, è vero che siamo dentro una prigione, ma in questa prigione continuiamo a mantenere la nostra umanità.

Inevitabile è stato a questo punto chiedere un’opinione sulla condotta del governo israeliano in Palestina, se questa possa essere considerata una vera politica di apartheid nei confronti della popolazione araba. Se Alessandra ha preferito non esprimere un giudizio in una situazione senz’altro difficile e complessa (che noi occidentali - per forza di cose - non possiamo conoscere a fondo), Gabriele è invece convinto che il governo israeliano spinga per la segregazione dei Palestinesi. Chiarendo che la sua presa di posizione non deve confondersi come una condanna verso il popolo ebraico, si chiede come non possa non essere definito “apartheid” un contesto in cui – ad esempio – le coppie miste israeliane/palestinesi non possono convivere insieme nel suolo d’Israele qualora decidano di sposarsi. L’obiettivo del governo israeliano è chiaro ed è quello di non permettere il mescolamento tra le due popolazioni.

Venendo invece a parlare di momenti più personali e profondi, i due ragazzi - che professano apertamente la loro fede cattolica - non dimenticano di menzionare la dimensione spirituale del viaggio. Alessandra ci ha raccontato delle intense sensazioni che ha provato all’interno del Santo Sepolcro a Gerusalemme (mi sono sentita spoglia di tutto, a contatto con Cristo). Una spiritualità coltivata anche nel volontariato, con numerose esperienze condotte sul “campo” in strutture operanti nel territorio. Durante la permanenza, la coppia ha visitato il centro La Crèche, un orfanotrofio di Betlemme che fornisce però sostegno anche a giovani donne con gravidanze prematrimoniali. All’interno della comunità araba, dove la condizione femminile è ancora ben lungi da una reale emancipazione, rimanere incinta prima del matrimonio è considerata cosa talmente grave che le ragazze coinvolte corrono seriamente il rischio di essere uccise dai loro stessi parenti. Sempre a Betlemme, Alessandra e Gabriele sono stati ospiti per due settimane presso la Comunità delle Suore del Verbo Incarnato, una struttura che raccoglie bambini con deficit fisici e mentali. Nelle durissima situazione della Palestina di oggi, le famiglie arabe – generalmente molto numerose – tendono ad abbandonare al loro destino i figli con gravi problemi di salute. Le suore raccolgono questi “disgraziati” e - nel limite delle scarse risorse a disposizione - cercano di provvedere ad una loro sistemazione. Per un volontario occidentale l’approccio con questi bambini, - che hanno spesso malformazioni spaventose, dovute anche alle percosse ricevute nelle famiglie d’origine - può essere terribile. Tuttavia poco a poco ci si abitua e il sorriso fanciullesco riesce a trasformare la pena iniziale in una gioia sincera. Abbiamo anche scoperto che mentre Alessandra è una perfetta babysitter che se la cava benissimo con spille e pannolini, Gabriele è stato spedito – precauzionalmente - a ridipingere muri e pareti!

Giungendo finalmente a conclusione dell’intervista, abbiamo chiesto di fare un bilancio di tutta l’esperienza domandando in particolare in che cosa abbiano sentito un reale arricchimento interiore. Come i due ragazzi abbiano lasciato parte del loro cuore in Terra Santa, lo si poteva intuire dalla luminosità dei loro occhi al momento della risposta, dalla concitazione dei loro gesti e dalla profondità delle loro osservazioni. Il pensiero di entrambi è ben sintetizzabile in una sequela di parole appassionate esposte da Gabriele, condivise con noi con una grande intensità emotiva. Alessandra non se ne avrà male se ne riportiamo integralmente la trascrizione; la speranza è che queste considerazioni possano essere un veicolo di riflessione e di sprono per altri giovani nell’impegno sociale e culturale:

Il viaggio mi ha dato la consapevolezza dell’importanza di buttarti nella vita, di buttarti nella realtà, di incontrare persone, di dialogare, di non mettere paraocchi, di capire sempre il diverso, di non fermarti alle apparenze, di indagare. Mi ha spronato a buttarmi a pieno nelle cose, anche se a volte buttarsi a pieno nelle cose costa fatica. Nel nostro mondo occidentale, noi abbiamo la possibilità di fare tutto. E allora, invece di mettere a frutto le energie per andare a ballare (certo, si può fare anche quello!), magari si possono mettere a frutto per altre cose che sono più importanti. Nel discorso fatto a Tor Vergata al Giubileo dei Giovani, Giovanni Paolo II disse: “Voi non vi rassegnerete ad un mondo dove le persone muoiono di fame e stanno male”. Io credo che questa cosa, ogni viaggio che faccio, me la riconferma ogni volta di più: buttarti a pieno nella vita, nonostante tutto!

Nessun commento: