giovedì 25 settembre 2008

Precari...lavorano e tanto si lagnano

Qualche giorno fa, ho avuto il piacere di ospitare un mio carissimo amico di Monaco di Baviera, in vacanza in Italia insieme alla ragazza. Nel parlare del più e del meno, ricordando i bei momenti passati insieme nel periodo del suo soggiorno Erasmus a Perugia, come quando ce ne stavamo belli spaparanzati sulle scalette del Duomo o al pratino di San Francesco o quando intonavamo beati le canzoni d’osteria in quella sbornia collettiva che è l’October Fest (con il sottoscritto che – assolutamente deficiente nella teutonica lingua – becerava suoni senza senso alcuno), è inevitabile che il discorso finisca malauguratamente su famiglia, salute e lavoro.

Se per le prime due voci non mi posso certo lamentare, nella terza le cose si fanno leggermente più complicate. Farfugliando parole in uno stentato inglese (per rendere partecipe anche la di lui fanciulla), ho cercato di far capire loro qual è la situazione attuale di un insegnante precario italiano. Per tutto il tempo in cui ho parlato di questo argomento, i miei amici hanno tenuto gli occhi come sgranati, quasi stessi parlando di cose a loro incomprensibili. Non riuscivano a capacitarsi del fatto che un professore – ma credo una qualsiasi persona in senso più generale – dovesse accettare questi condizioni di instabilità nella propria situazione lavorativa. Mi hanno poi spiegato quali sono gli stardand per i colleghi miei coetanei in Germania…e fare confronti, immaginerete bene, è come sparare sulla Croce Rossa.

Scrivo queste righe proprio nel giorno in cui ho assunto (anche se per ora non ho firmato nessun contratto) il mio primo incarico per l’anno scolastico 2008-2009. Tre ore in quel di Norcia, dove ormai sono di casa, per una classe di concorso che non è neanche quella voluta. Lavorerò in un classe serale, scelta che se da una parte potrebbe essere molto appagante da un punto di vista umano, mi costringerà a viaggiare da solo di notte magari in mezzo a tormente invernali. Avrei potuto timbrare il cartellino per altre otto ore, sempre in Valnerina, ma per motivi che sarebbe troppo lungo spiegare ho preferito non accettare. Dico solo che il cervellotico sistema che distribuisce le cattedre di matematica e di fisica spinge molti di noi – comunque assillati dal problema del precariato – a rifiutare incarichi anche appetibili.

A dieci giorni dall’inizio delle attività didattiche, gli organici della scuola sono una vera gruviera svizzera, con tanti buchi ancora da riempire. Ai precari spetta il compito di colmare questi vuoti indesiderati. Dunque largo ai precari, viva i precari! Chissà perché allora, nei giorni antecedenti alla chiamata, l’inquietudine ci sovrasta rendendoci pensierosi, alienati, ansiosi? Durante il giorno, attesa spasmodica dell’arrivo dei postini, ambasciator senza pena dei telegrammi delle scuole; durante la notte, accensione di lumi e candele in onor degli dei dell’ intero Olimpo vaticinando una sorte che – se non proprio fortunata – sia quanto meno non avversa. Calche oceaniche si condensano alle convocazioni del Provveditorato e tra grida isteriche e squilibri collettivi, si assegnano quei pochi agognati posti che danno la gloria eterna (almeno fino a giugno). Calcoli scientifici, ragionamenti complessi, ma se Tizio va a Canicattì, forse Bordighera è mia per fare previsioni matematicamente esatte su un futuro quanto mai incerto.

Qualche giorno dopo a qualche giorno fa, i miei due amici tedeschi mi hanno accompagnato ad una cena che avevo organizzato con i miei ex compagni della SSIS, ora tutti professori precari. Tra insegnanti è praticamente impossibile non parlare di scuola e quando tra insegnanti si parla di scuola, è praticamente impossibile non parlare di precariato: la sempre di lui donzella – incuriosita dall’animosità con cui affrontavamo certi discorsi – ha chiesto al marito di una mia collega perché discutevamo in quel modo. E il caro coniuge, impeccabile nella lingua che fu di Shakespeare e di Joyce, le ha risposto di non fare caso alle esternazioni di frustrates.

Un pensiero un po’ più serio per concludere questa sfilza di chiacchiere incontrollate. Ne parlo in condizione di privilegiato, visto che mamma e papà ─ nel mandare avanti la carretta ─ ancora sganciano il soldo necessario. Si è tanto parlato negli ultimi tempi di difendere l’istituzione della famiglia contro i pericoli del mondo moderno e della sua rapida evoluzione. Ci viene detto che riconoscere i diritti alle coppie di fatto mette seriamente a rischio la formazione di nuove famiglie tra i giovani della nostra epoca. Ci si rimprovera anche di essere dei bamboccioni, che non vogliamo lasciare il nido materno, che non vogliamo mai crescere.

Avrete capito dove voglio andare a parare. Se saremo costretti per sempre a vivere in questi condizioni di assoluta precarietà, che un giorno lavori e il giorno chissà che fine farai, con gli stipendi che anziché aumentare vengono ridotti, senza poterci permettere neanche uno straccio di piano futuro per la nostra vita...come fate a dire che siamo dei bamboccioni, come fate a dire che non vogliamo andare via di casa, come fate a dire che non vogliamo mettere su famiglia? E se magari li volessimo quei tre o quattro marmocchi che ci rendano la vita meravigliosa? O più modestamente, potere avere una vita indipendente, con dei progetti e dei sogni da coltivare? È questo possibile senza per forza doversi sposare una milionaria? Io una milionaria ancora non l’ho mai conosciuta e tanto sono sicuro che non mi piacerebbe…

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