lunedì 22 settembre 2008

Castelluccio, il tetto degli Appennini si rifà il look

Da www.umbriaclick.it

Parla il primo emigrato del tetto degli Appennini, Dalmazio Iacorossi. Racconta la storia del cane-postino, Strappone, e come era il paese 80 anni fa. Castelluccio di Norcia, il tetto degli Appennini, si rifà il look. Si realizzano le nuove fognature di raccolta e convogliamento degli scarichi, nonché l’arredo urbano. I lavori sono già iniziati e procedono di gran lena, perché fra qualche giorno quassù farà pure molto freddo. Si spenderanno complessivamente 4.116.597,19 Euro della comunità europea. I progettisti sono Regione dell’Umbria direzione ambiente, territorio e infrastrutture; ufficio temporaneo completamento ricostruzione e servizio geologico. Tutto il piccolo borgo è stato perforato per la posa in opera di grossi tubi e cavi. Si realizzano l’acquedotto, le fogne, la pavimentazione, le scale d’accesso ai vicoletti interni. Si rifanno il maquillage anche gli angoli più nascosti ma certo non meno suggestivi. Si cablano pure gli impianti elettrici, telefonici e il cavo in fibra ottica.

Insomma, non ci saranno più dispersioni d’acqua dai tubi colabrodo, né intrusioni a cielo aperto d’elementi stonati e anche maleodoranti. Il prossimo anno, quando i lavori saranno ultimati, Castelluccio si presenterà come un caro, affettuoso borgo di montagna. Quasi una piccola Cortina d’Ampezzo dell’Umbria e chi arriverà nell’antico paese dei pastori troverà, come per incanto, una “tela” uscita dalle pennellate di un magico pittore medioevale. Insomma, sarà tutto diverso. Non resterà che contemplarlo, specie al tramonto quando gli ultimi raggi del sole lo colorano di un rosso acceso che via via sfuma fino a naufragare in un fantomatico argento che ammanta la dorsale dei monti Sibillini e il pian Grande. Le ombre della sera però sembrano avvolgere questa distesa prateria con grande rispetto, quasi per non turbare il netto contrasto con i sollevamenti tettonici che hanno dato origine al monte Vettore. E di notte pian Piccolo e pian Perduto, sembrano stringersi attorno a pian Grande, quasi temessero le storie della Sibilla.

I castellucciani plaudono a questi lavori, anche se non manca qualche disagio. “Soldi comunitari spesi bene”, dice un uomo che incontriamo nei pressi della chiesa parrocchiale di S. Maria Assunta, “perché l’acquedotto perdeva più acqua di quanto ne trasportava, mentre dalle vecchie fognature il liquame usciva come da una fontanella in un paio di punti a valle del paese”. Tecnici ed operai lavorano tutti di gran lena alla realizzazione del progetto. Il divieto di transito ai veicoli, consente solo il passaggio a quelli dei residenti. Camioncini ed escavatori girano su un fazzoletto, mentre il sedime stradale è di colore grigio per la cementata che dovrà accogliere la nuova pavimentazione. Chi gira a piedi deve fare attenzione a dove mette i piedi, perché c’è il rischio di inciampare sui “colletti” sporgenti dei tombini. Le case e le stalle, viste da vicino, sono come bambini usciti di scuola, che si danno la mano. Un tempo erano soste e isole di lavoro sulla via e ricordano il lavoro paziente di generazioni.

Dalla balconata in pietra delle mura di cinta e con lo sguardo fisso verso il camposanto, incontriamo Dalmazio Iacorossi, classe 1925. E’ nato da una famiglia di pastori in una di queste case ristrutturate dopo il terremoto del 1979. Dalmazio è stato uno dei primi, se non il primo, a fare le valige e andarsene dal paese 54 anni fa. Ha lavorato una vita nella centrale di Montalto di Castro. D’estate ritorna fra i suoi monti natii. Mostra distintamente i segni del lungo viaggio della vita attraverso gli anni. Esordisce: “Quando ce ne siamo andati, tutti abbiamo detto che non saremmo più ritornati nemmeno da morti. Invece non è così. I castellucciani tornano spesso a respirare l’antica aria domestica e anche per l’ultimo viaggio”. Perché allora quella frase dura e cruda? “Perché è stato sempre un paese abbandonato da tutti –racconta con rabbia- tanto che non abbiamo mai visto un’autorità per stringergli la mano. Solo il vescovo di Spoleto saliva fin quassù a cavalcioni di un mulo. Lo faceva in occasione della cresima dei bambini che erano sempre tanti. Il mulo era l’unico mezzo di collegamento, perchè non esistevano strade. Solo una mulattiera”.

Come si viveva 80 anni fa a Castelluccio? “Si viveva bene, perché c’erano tanti residenti che costituivano un’unica famiglia. Noi ragazzi andavamo a scuola sia il mattino che il pomeriggio, ma d’inverno appena avevamo un minuto di tempo libero ci mettevamo gli sci ai piedi e via per i prati a divertirsi. Allora cadeva parecchia neve, tanto che copriva anche le porte delle case. Con i chiodi ci trastullavamo a scrivere sui lastroni gelati. Di frequente restavamo isolati per parecchio tempo dal resto del mondo”. E se qualcuno si ammalava? “Quando c’era un ammalato grave andavamo a prendere la lettiga attrezzata per il traino a mano "di volata" all’interno della chiesa del Sacramento, oggi sconsacrata. Infine, una cordata di 5 o 6 uomini robusti correva con gli sci fino all’ospedale di Norcia, sfidando il freddo, il vento e la tormenta. Impiegavano dalle 4 alle 5 ore. Anche il postino d’inverno arrivava con gli. Lo precedeva un grosso cane di razza maremmana che trasportava sul dorso due pesanti bisacce piene di corrispondenza. Quando Strappone, questo il nome del vecchio cane, arrivava in paese affondando ad ogni falcata le sue grosse zampe sulla neve fresca, noi ragazzini gli correvamo incontro per fargli festa e lui ricambiava abbaiando e scodinzolando”.

Perché se n’è andato a vent’anni? “Perché quassù, a 1450 metri di quota, il soldo non viaggiava. Adesso invece con le lenticchie e le altre attività legate alla pastorizia è tutto diverso. In quegli anni noi avevamo un quintale di lenticchie. Con mio padre le portavamo a vendere a Norcia. La prima tappa era il portico delle misure, il mercato coperto dei cereali, dove si trovano ancora oggi i recipienti in pietra utilizzati per la stima. Una vita dura, piena di sacrifici. Dopo di me, lentamente ma progressivamente, sono partiti altri giovani e più tardi anche le loro famiglie che si sono sparpagliate tra Norcia e Roma”. Attualmente, d’inverno, quanta gente resta ad abitare a Castelluccio? Ce lo spiega un signore di mezza età, che incontriamo vicino la chiesa parrocchiale. “Circa quindici persone –dice allargando le braccia- perché il resto dei residenti hanno quasi tutti la casa a Norcia. Molti ritornano ad aprile, quando è tempo di seminare la lenticchia, poi si fermano da giugno a settembre”. Ritornano giovani e anziani o solo anziani? “Soprattutto anziani, perchè i giovani sono pochi”. Nel dedalo delle strette vie di Castelluccio incontriamo anche Perla Reggina, intenta a ripulire le lenticchie da eventuali impurità sulla vecchia tavola a barca. Poi le insacca e le vende. Mezzo chilo 4 euro. Pure lei arriva ad aprile per la semina poi si ferma a godersi l’estate. D’inverno vive con la figlia e i nipoti a Castel Ritaldi. “Castelluccio –spiega- vive il suo momento magico soltanto tre mesi l’anno. D’altra parte, è questo il destino di tutti i centri di montagna”.

Eppure la “vocazione turistica” c’è e lo si deve alla bellezza dei luoghi. Qui si possono praticare anche diversi sport: escursionismo, deltaplano, snowshoeing, surviving, arco, mountain bike, bird-watching, orienteering, trekking con i muli. Sul pian Grande, vicino al maneggio, stracolmo di gente che prende l’ultimo sole d’agosto, i temerari del deltaplano noleggiano nel cielo azzurro e planano dolcemente sulla valle. Ascoltiamo la radio gracchiante dell’istruttore della Prodelta, la scuola nazionale di volo libero, che li guida all’atterraggio. Sono 25 anni che organizza i corsi per questi appassionati. Molti sono tedeschi.

Vicino all’abbeveratoio delle pecore, incontriamo un pastore sui 50 anni. Fa un caldo bestiale, ma l’uomo si porta precauzionalmente al seguito il grosso ombrello per mettersi al riparo dal sole e da eventuali acquazzoni estivi. Come va? Sorride: “La terra qui è dura, difficile –esordisce con tono gentile mentre accetta di farsi fotografare- ma c’è l’immersione totale nel respiro della natura”. E’ sufficiente per ripagare una vita di disagi e fatica? “Certo che no e lo dimostra il fatto che a Norcia siamo rimasti soltanto in cinque a fare questo mestiere. Gli altri che s’incontrano sui prati-pascoli arrivano dalle Marche”. Non ci sono più giovani disposti a mettersi in gioco? “La vita del pastore è stata sempre una vita difficile da capire, soprattutto oggi per la mentalità dei giovani tesa alla ricerca di un successo e di un benessere fondato su valori effimeri. Giornate faticose, spese all’aria aperta, senza orari, con il sole o con la pioggia. Si inizia al mattino presto per mungere le bestie, poi si fa ritorno alle prime ombre della sera. Si dorme con un occhio aperto in una roulotte e ci si sveglia al primo abbaiare dei cani, perché il lupo è sempre in agguato”. Un tempo invece i pastori esercitavano il loro rude “fascino” sui propri figli, desiderosi di diventare autonomi, di vivere all’aria parte, guidare il gregge con i fischi e l’aiuto dei cani.

Oggi nessuno resta più incantato da questo mestiere. Negli ovili sono arrivati gli immigrati. Soprattutto macedoni e romeni che hanno una cultura pastorale ancora viva nella loro terra. Sono tutti in regola. Almeno così dicono. Il nero resterebbe fuori, perché hanno paura dei controlli dei carabinieri e della Guardia Forestale. I loro salari raramente superano i settecento euro il mese. Sono impiegati in aziende piccole, a conduzione familiare. E vivono un momento difficile, strette tra norme europee che, da una parte incentivano la crescita delle dimensioni e l’innovazione, mentre dall’altra il cartello delle grandi industrie di trasformazione alimentare punta a mantenere il più basso possibile il prezzo del latte acquistato dagli allevatori.

Gilberto Scalabrini

Nessun commento: