venerdì 27 giugno 2008

"La Guerra Fredda culturale" di Frances Stonor Saunders



Il volume della scrittrice inglese Frances Stonor Saunders costituisce un resoconto ampio e dettagliato della massiccia rete di finanziamenti ad intellettuali ed organi della cultura europea posta in essere dalla CIA dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale attraverso il Congresso per la Libertà della Cultura (Congress for Cultural Freedom). Fondato alla fine di giugno del 1950 a Berlino, questo Congresso costituisce una delle espressioni più velate, ma più rilevanti, della Guerra Fredda. La creazione di questa associazione di intellettuali, che hanno come finalità comune la difesa delle libertà di espressione, nelle sue varie forme, rappresenta lo strumento adottato dal mondo occidentale per contrastare la politica culturale sovietica. La “battaglia per la conquista delle menti degli uomini” (o Kulturkapf) diventa il principale terreno di scontro della guerra psicologica condotta con metodi pacifici tra Occidente e Unione Sovietica. Nel volume la Saunders mostra come il funzionamento del Congresso dipendeva da finanziamenti segreti governativi, elargiti dalla CIA attraverso la copertura di un Consorzio di fondazioni filantropiche. Attraverso quella che Edward Wadie Said, teorico letterario, critico e attivista politico palestino-americano, docente di Inglese e Letteratura comparata alla Columbia University ha definito “una grande opera di indagine storica”, l’autrice ripercorre le dinamiche di finanziamento di espressioni culturali occidentali rilevanti del secondo dopoguerra (soprattutto riviste, tra cui l’italiana Tempo Presente diretta da Ignazio Silone e Nicola Chiaromonte), dimostrando in maniera documentata una loro vitale dipendenza economica.
Occorre dunque chiedersi se un certo tipo di dipendenza economico-finanziaria possa aver avuto o meno un’influenza su quella libertà di espressione rivendicata dagli intellettuali occidentali, in contrapposizione ad una “cultura di Stato” tipica del sistema oppressivo sovietico. Ovviamente è indubbia la necessità materiale di finanziamenti per far funzionare riviste, per organizzare congressi e convegni; ma la questione in questo caso è molto più delicata: il finanziamento da parte di un’agenzia governativa, nella programmazione di una guerra propagandistica psicologica finalizzata a contrastare il Kulturkampf sovietico, ha limitato la libertà di espressione degli intellettuali che facevano capo al Congresso? Lo sviluppo di una forma di “mecenatismo culturale” (come dice l’autrice, “chi paga il pifferaio decide la musica”) non può certo essere posto su un piano paritetico con i metodi utilizzati dalle politiche culturali sovietiche, in quanto fanno riferimento a due visioni ideologiche completamente contrapposte: una democratica e liberale, l’altra repressiva propria di uno Stato totalitario. Tuttavia, in entrambi i casi, la finalità è la stessa: lo sviluppo di una campagna di persuasione ampia. Personalmente ritengo che il ruolo degli intellettuali del Congresso in questa guerra culturale sia stato ambiguo. Da un lato infatti, nel “Manifesto della libertà”, pietra del Congresso, si definisce la libertà come il “diritto di avere e di esprimere le proprie opinioni, in particolare opinioni diverse da quelle dei propri governi”, e si afferma che questa deve trovare un’espressione indipendente dalla politica e dalla propaganda; d’altro lato però, proprio questi stessi principi basilari vengono disattesi: l’assenza di posizioni critiche nei confronti degli USA, o la particolare disciplina dei casi in cui queste si manifestano (vedi caso Rosenberg o la questione razziale), la presenza all’interno del Congresso di agenti o individui vicini alla CIA, ed il fatto che molti sapevano o immaginavano la provenienza dell’ingente ed ininterrotto flusso di finanziamenti, fanno sorgere dubbi legittimi sia sulla piena libertà di espressione di questi intellettuali, sia sul ruolo strumentale del Congresso.Chiaramente i membri che ne facevano parte hanno fatto una scelta ideologica consapevole e moralmente sincera dei suoi intenti; tuttavia la selezione del personale del Congresso (ex marxisti trockisti, intellettuali della sinistra non comunista, convertiti politici) può rappresentare l’espressione riuscita di una guerra psicologica, condotta in modo tale da utilizzare il tipo di propaganda più efficace, quella cioè in cui “il soggetto opera nella direzione richiesta per motivi che ritiene essere propri”. Tuttavia, nel momento in cui la coscienza morale di un intellettuale non può rimanere cieca e muta di fronte agli atteggiamenti imperialisti della politica estera americana (guerra del Vietnam, Baia dei Porci su tutti), ed il soggetto cambia la propria direzione, iniziando a criticare anche gli Stati Uniti, il Congresso diventa uno strumento obsoleto e controproducente nella guerra culturale e psicologica della CIA, perdendo quindi la sua principale fonte di sostentamento; e la seguente pubblicazione dell’origine dei finanziamenti, confermata dal “tradimento” di Braden, dirigente della CIA, probabilmente con l’accondiscendenza dell’Agenzia stessa, ne determina la crisi ed il collasso. Se dunque, secondo la filosofia dello stesso Braden, il mecenatismo porta con sé il dovere di istruire, di insegnare alla gente ad accettare non quello che voleva, o pensava di volere, ma quello che avrebbe dovuto avere, non si può non riconoscere, a mio giudizio, il fatto che il parametro di libertà offerto dagli intellettuali del Congresso non fosse pienamente libero, in quanto basato sull’imperativo contraddittorio della “menzogna necessaria”, utilizzata per contrastare la politica culturale sovietica con la medesima tecnica. Per quanto dunque il Congresso può rappresentare un’associazione derivante dalla manifestazione di una volontà autentica, spontanea, profonda e sincera di esportare il concetto di libertà in opposizione al fascino esercitato dal marxismo e dal comunismo, il legame vitale che si è venuto a creare tra questo e la CIA ne limita fortemente la moralità e la credibilità degli intenti. Come giustamente affermava l’intellettuale ed editore americano William Phillips infatti, “il finanziamento viola la natura stessa di una libera impresa intellettuale, in particolare quando le sovvenzioni arrivano da un organo governativo ben organizzato, con un proprio programma di priorità politiche”. Libro sicuramente da leggere. Analizza in modo non ideologicizzato né politicizzato, ma documentato e critico, un aspetto insolito di un periodo fondamentale della storia contemporanea. I temi di fondo che percorrono il testo, il finanziamento della cultura e l’effettività della libertà di pensiero, risultano essere estremamente attuali in un contesto come quello italiano in cui è ancora aperto il dibattito sui finanziamenti pubblici all’editoria, e che l’istituto di ricerca Freedom House considerava, da un punto di vista di libertà di stampa, parzialmente libero ancora nel 2006, a parimerito con Botswana e dietro a Mongolia e Bulgaria.

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