giovedì 10 luglio 2008

"Farmaci che ammalano e case farmacetiche che ci trasformano in pazienti", di Ray Moynihan e Alan Cassels


Solo un paio di anni fa, i media nazionali e internazionali annunciavano, con toni allarmistici piuttosto inquietanti, l’imminente diffusione a macchia d’olio di quella che veniva definita la nuova peste del millennio. L’ influenza aviaria del ceppo H5N1 avrebbe causato, secondo previsioni ritenute altamente probabili, la morte di più di 100 milioni di individui. Nel panico generale che si era creato, le speranze di sopravvivenza venivano riposte su un farmaco antivirale svizzero, il Tamiflu della Roche. Per ragioni mai del tutto chiare, questo medicinale non fu commercializzato in Italia nel periodo della suddetta crisi. Ricordo la costernazione di ampi strati della società civile, indignati per la mancanza del Tamiflu nel nostro paese; ricordo le immagini televisive che inquadravano le lunghe file alla dogana con il paese elvetico oppure le “orde italiche” all’assalto delle farmacie rossocrociate per ottenere un piccolo flaconcino della magica panacea. Due anni sono passati e come è andata a finire? L’influenza aviaria ha ucciso ─ è vero ─ circa duecento persone nel sud-est asiatico; ma questo è avvenuto sempre in regioni le cui condizioni igienico-sanitarie non possono che definirsi assai precarie. E il Tamiflu invece? Questo farmaco, messo sul mercato per la prima volta nel 1997 (quindi ben prima della diffusione dell’aviaria) e che era stato fino a quel momento un disastro commerciale, ha riportato invece nel solo 2006 un profitto di oltre un miliardo e mezzo di euro.

Trenta anni fa Henry Gadsen, direttore generale della casa farmaceutica Merck, intervistato dalla rivista Fortune, se ne uscì con un’affermazione tanto franca quanto sconcertante: “Il nostro sogno è quello di produrre farmaci per le persone sane. Questo ci permetterebbe di vendere a chiunque”. Con la narrazione di questo aneddoto inizia il libro, scritto a due mani del giornalista scientifico Ray Moynihan e del ricercatore canadese Alan Cassels, Farmaci che ammalano e case farmaceutiche che ci trasformano in pazienti, pubblicato in Italia dalla collana Nuovi Mondi Media. Un’opera importante oltre che scomoda, per gli interessi in gioco analizzati nonché per la ampia documentazione allegata. Non c’è da stupirsi allora che non abbia trovato l’attenzione che sicuramente merita, rimanendo ancorata nel campo dell’informazione indipendente.

Quale sia il raccordo tra l’affermazione dell’ oscuro dirigente della Merck e il pensiero dei due autori, credo che sia piuttosto semplice da capire. La tesi fondamentale sostenuta da Moynihan e Cassels è che il sogno espresso da Gadsen tre decadi fa ha trovato oggi la sua completa realizzazione. Le case farmaceutiche, in quanto società a scopo di lucro, si pongono come obiettivo primario quello di massimizzare i propri introiti. Fin qui, nulla di scandaloso; il problema sorge però nel momento in cui, per raggiungere tale finalità, si adottano politiche caratterizzate dal solo interesse egoistico, che tramutano in comportamenti anti-etici nei confronti dei propri clienti e della collettività in generale. Il tutto diventa poi ancora più difficile da accettare tenendo conto che queste società fanno profitti sulla salute delle persone, la cui tutela dovrebbe essere considerata un diritto fondamentale inalienabile. Cosa che evidentemente rimane solo un piano ideale…

I due autori riportano fin da subito l’ordine di grandezza dei profitti in gioco. A livello mondiale, l’industria farmaceutica vanta un fatturato annuo di oltre 500 miliardi di dollari (pari circa al prodotto interno lordo di paesi come l’Argentina o il Sudafrica). Il mantenimento o l’incremento di questo enorme flusso di denaro viene assicurato dall’applicazione di alcune strategie che il libro riesce a descrivere con una certa meticolosità. Nel fare ciò, Moynihan e Cassels adottano un approccio che potremmo definire induttivo: partendo dall’esposizione di una decina di casi significativi (scelti tra i più attuali ed eclatanti), si passa poi all’analisi delle dinamiche generali che spiegano come le aziende farmaceutiche riescano a fare così tanti soldi.

In questo contesto, emergono allora alcuni meccanismi diffusi sicuramente emblematici. In particolare, i due autori evidenziano a più riprese come le case farmaceutiche riescano:
  • ad inventare dal nulla nuove malattie o quanto meno ad allargare i confini di quelle precedenti. In questo modo, molte più persone diventano dei potenziali malati e quindi potenziali clienti di tali società;
  • a focalizzare l’attenzione della malattia quasi esclusivamente sugli aspetti di squilibrio fisico dell’organismo umano (gli unici su cui si può intervenire tramite medicinali), sminuendo l’importanza che possono avere invece altri fattori di causa (come quelli economici, sociali, psicologici, etc.) ;
  • a trasformare normalissime esperienze di vita (quali possono essere i disturbi premestruali per le donne o le difficoltà di relazioni sociali) in possibili malattie che colpiscono ampi strati della popolazione e su cui naturalmente intervenire con i farmaci;
  • a controllare sia il campo della ricerca scientifica che gli enti di vigilanza, in modo tale da ottenere definizioni di malattie e normative favorevoli alle politiche delle aziende nonché una totale acquiescenza delle istituzioni qualora si presentino situazioni problematiche con i clienti.

Relativamente a quest’ultimo punto, il libro descrive il forte condizionamento che le case farmaceutiche esercitano sui comparti professionali agenti nel campo della sanità. Avvalendosi di un esercito di 80 mila rappresentanti solamente negli Stati Uniti, le aziende del settore riescono spesso ad instaurare ─ anche grazie all’aiuto di campioni omaggio, regali di varia natura, partecipazione spesata ai corsi d’aggiornamento ─ un rapporto di fiducia reciproca con i singoli medici e ciò ha naturalmente le sue buone ripercussioni sull’aumento della prescrizione di farmaci. Gli stessi convegni sono inoltre quasi sempre finanziati dalle multinazionali farmaceutiche e i relatori invitati ─ i cosiddetti thougt-leaders o opinion-leaders ─ sono figure generalmente di prestigio che però hanno stretti legami con le società organizzatrici. Le linee dei convegni sono allora dettate secondo schemi favorevoli alle case farmaceutiche che riescono così con più facilità a “plagiare” il pensiero del personale medico. Gli stessi dottori peraltro possono avere anche un certo interesse nella politica adottata dalle multinazionali di trasformare una persona in un paziente. Come viene ben evidenziato nel capitolo sulla pressione alta, “ad un medico […] una diagnosi di “ipertensione” può fruttare un paziente a vita. […] allacciare la fascia e misurare la pressione ad un paziente è un incontro clinico ideale: è facile, veloce e piuttosto ben pagato rispetto al poco tempo richiesto”.

Moynihan e Cassels descrivono inoltre come anche il principale ente pubblico statunitense preposto per il controllo della qualità dei farmaci, l’FDA (Food and Drug Admistration), sia fortemente colluso con le aziende produttrici. Per rendere l’idea, basta dire che negli USA, “più del 50% del lavoro di controllo della sicurezza e dell’efficacia dei medicinali è pagato dalle medesime case farmaceutiche i cui prodotti vengono controllati”. In realtà questa tendenza non sembra essere prerogativa solo americana, visto che anche in altre nazioni europee sussistono situazioni simili, mentre in Australia le case farmaceutiche finanziano il 100% delle spese dell’ente di vigilanza.

Il controllo dell’ambiente medico sarebbe però inutile senza un’adeguata campagna di marketing che convinca il consumatore ad acquistare il prodotto. Questa semplice constatazione è stata ben compresa dalle case farmaceutiche che investono nei soli Stati Uniti qualcosa come tre miliardi di dollari all’anno per la pubblicità. Personaggi pubblici famosi, figure scientifiche prestigiose ma anche solo semplici pazienti (generalmente forniti dalle associazioni dei malati, anch’esse generosamente finanziate dall’industria del farmaco) vengono arruolati per girare spot o messaggi promozionali di ogni genere che finiscono poi sulle televisioni, sui quotidiani e sulle riviste di mezzo mondo. Le case farmaceutiche si alleano con le grandi società di comunicazione che elaborano strategie promozionali sempre più sofisticate e funzionali agli interessi del cliente. Nell’ analisi dei casi specifici riportati nel libro, i due autori mostrano in più occasioni come:
  1. gli annunci pubblicitari risultino spesso ingannevoli sui rischi e sui benefici dei medicali reclamizzati. Molti spot tendono ad esagerare i vantaggi che il farmaco porta, mentre vengono minimizzati gli effetti collaterali;
  2. la comunicazione adottata sia finalizzata a cambiare la percezione che la gente ha dei propri mali consueti, trasformando disturbi del tutto naturali nel corso dell’esistenza umana in patologie mediche. “Le persone devono venire persuase che problemi che prima magari accettavano come un semplice inconveniente ora sono considerati degni di un intervento a livello medico”. Per raggiungere tale obiettivo, la strategia promozionale fa spesso leva sulle ansie e sulle paure della gente. In particolare, si cerca di promuovere l’idea subdola che piccoli malanni o piccoli acciacchi siano in realtà sintomi di malattie serie su cui è necessario intervenire tempestivamente con i farmaci;
  3. le case farmaceutiche promuovano la propria pubblicità come informazione medica oggettiva, necessaria ai pazienti per fare scelte consapevoli sulla cura della loro salute. In questo modo, si favorisce una visione distorta o quanto meno parziale delle malattie, naturalmente favorevole agli interessi delle aziende.

Il quadro delineato da Moynihan e Cassels dimostra quindi la totale adesione da parte dell’industria farmaceutica ai modelli liberisti più sfrenati. Le multinazionali del settore sono letteralmente macchine per fare soldi che non si fanno scrupoli per raggiungere l’obiettivo dichiarato di massimizzare i propri profitti. Contrastare questo modello di sviluppo risulta certamente difficile…ma non impossibile. Il libro parla anche di alcune esperienze di opposizione alle logiche descritte ─ portate avanti da ricercatori e personale medico indipendente ma anche da semplici cittadini ─ e che hanno avuto infine un esito positivo. La messa in discussione dello status quo deve necessariamente ricercare l’indipendenza dalle case farmaceutiche dei comitati di controllo (in questo senso, la prima cosa da fare è limitare notevolmente i finanziamenti dell’aziende alle istituzioni come l’FDA), nonché dei sistemi informativi, attualmente molto accondiscendenti con le politiche delle multinazionali. Gli enti di vigilanza dovrebbero inoltre avere una presenza maggiore di personale non medico, che guardi le tematiche sanitarie con una prospettiva più ampia e meno propensa ad un’eccessiva medicalizzazione delle malattie. E infine, risulta molto importante far conoscere tali problematiche ad un pubblico più vasto, discuterne con le persone e cercare di formare un atteggiamento maggiormente critico nei riguardi dell’ambiente farmaceutico. Come affermano gli stessi autori, “benché possa sembrare buon senso spicciolo, può servire moltissimo parlare con i familiari e amici per capire se una certa diagnosi sia corretta o meno e se il problema in questione sia davvero segno di una malattia o semplicemente uno degli alti e bassi della vita quotidiana […] non si potrà mai esagerare l’importanza di un salutare scetticismo nei confronti della pubblicità aggressiva sulle malattie più nuove e sul numero di persone che si afferma ne soffrano”. Speriamo che il nostro post sia uno stimolo in più per intraprendere questa strada...

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