lunedì 16 giugno 2008

Una nuova "Economia all' idrogeno"

"Economia all'idrogeno" di Jeremy Rifkin

La questione energetica rappresenta sicuramente una delle tematiche di maggiore attualità dei nostri tempi. Non passa giorno oramai che non si senta parlare dell’ennesimo aumento del prezzo della benzina, dei piani strategici per il controllo del petrolio, del rischio della chiusura delle forniture di gas, magari per i capricci di un qualche cowboy texano o di un ex capetto del KGB. Gli aspetti economici come sempre predominano su tutto il resto, ma timidamente si cominciano ad affrontare anche le problematiche ambientali insite nell’attuale regime energetico basato sui combustibili fossili. Uno strumento a mio avviso utile per raccapezzare qualcosa a riguardo è il libro “Economia all’ idrogeno” di Jeremy Rifkin, pubblicato in Italia nella collana Oscar Mondadori.

L’opera si può considerare sostanzialmente divisa in due parti. La prima parte, probabilmente la più convincente e argomentata, analizza quello che per Rifkin è l’inevitabile declino del nostro sistema energetico basato sugli idrocarburi. Secondo l’economista americano, i rapporti economici e la struttura stessa delle società sono strettamente correlati alla quantità di energia che riescono ad utilizzare. Ad un maggiore flusso energetico corrisponde una maggiore ricchezza individuale ed una maggiore complessità organizzativa della società. La stabilità della stessa dipende strettamente dalla solidità del sistema energetico di riferimento, una cui crisi può scatenare una lunga sequela di effetti a catena. Tale teoria trova una valida conferma sul nostro attuale modello di sviluppo che, basato come è su un flusso ininterrotto di petrolio e metano a basso prezzo, subisce oggi una fase di estrema vulnerabilità.

Per spiegare tale debolezza, si intrecciano alcuni fattori di estrema complessità. Rifkin ne analizza in particolare alcuni:

a) i combustibili fossili, su cui si basa l’85% del fabbisogno energetico mondiale (40% petrolio, 22% carbone, 23% gas naturale), stanno finendo. Per spiegarla in termini più tecnici, l’economista americano ci informa che quasi tutti gli analisti del settore petrolifero sono concordi nel pensare che il picco di produzione del petrolio (con questo concetto, si intende il momento in cui è stato estratto la metà delle riserve stimate di un certo materiale. Il raggiungimento del picco corrisponde al massimo della produzione possibile di quella particolare sostanza. Dopo tale momento, la produzione incomincia a diminuire e nella maggiorparte dei casi questo decremento avviene molto drasticamente) verrà raggiunto in un arco di tempo che va dagli 0 anni delle previsioni più pessimistiche ─ il declino ha sostanzialmente già avuto inizio ─ ai 40 anni delle analisi più ottimistiche. Non va molto meglio per l’altro combustibile fossile di grande utilizzo, vale a dire il gas naturale. Le risorse petrolifere vanno dunque rapidamente scemando e non sembra esserci possibilità di ricambio. I pozzi più ricchi stanno perdendo la loro consistenza, mentre quelli di più recente individuazione si trovano in zone geografiche spesso impervie, risultando di conseguenza poco convenienti da un punto di vista remunerativo.

b) anche il petrolio è un bene a “denominazione di origine controllata”! Con questa battuta, voglio dire che la qualità del petrolio dipende strettamente dalla zona d’estrazione. Il petrolio di migliore qualità si trova in abbondanza solamente nelle regioni mediorientali, dove però risulta molto forte la presenza di una componente islamica fondamentalista. Rifkin enfatizza molto su questo punto, dedicando innanzitutto alcune pagine ad una descrizione generale della visione sociale, culturale, filosofica del mondo islamico. Senza dilungarsi nei particolari, risulta chiaro che la società islamica e quella occidentale hanno avuto in passato e hanno tutt’ora molti punti di divergenza, con la prima che ha spesso dovuto subire la dominazione economica e culturale della seconda. Alcuni segmenti del mondo mussulmano soffiano di conseguenza su sentimenti di umiliazione molto forti nei territori mediorientali e vedono nel controllo del petrolio la grande opportunità di rivalsa nei confronti dell’occidente. Mi vien da aggiungere, in una considerazione “ingenua” del tutto personale, che quando si mette a ferro e fuoco un territorio altrui dicendo che si va a portare la democrazia, una certa legittimità a queste reazioni è forse comprensibile. In qualsiasi caso, il petrolio diventa un’autentica bomba ad orologeria che può innescare il tanto temuto scontro di civiltà tra la cultura occidentale e quella islamica.

c) lo sfruttamento dei carburanti fossili risulta spesso altamente incompatibile con questioni ambientali che non è più possibile ignorare: l’effetto serra, il riscaldamento del pianeta, lo scioglimento dei ghiacciai e l’innalzamento del livello degli oceani, tutti fenomeni strettamente correlati con l’attuale sistema energetico basato su petrolio e gas, rischiano di modificare profondamente la conformazione del nostro pianeta, mettendone addirittura a rischio la sopravvivenza.

La crisi dell’attuale sistema energetico determina inoltre un effetto a cascata con immediate ricadute su tutti gli altri aspetti della vita dell’uomo. Pensate solamente all’importanza del petrolio nella produzione di cibo: Rifkin riporta alcune cifre secondo le quali il 17% dell’energia totale degli Stati Uniti viene assorbito dall’agricoltura e dal suo indotto. Cosa potrebbe succedere se all’improvviso venissero chiusi i rubinetti di petrolio in un settore che ne è quasi totalmente dipendente (fertilizzanti, carburante per le macchine agricole e i veicoli per il trasporto, tanto per fare degli esempi semplici)? La carenza di carburanti fossili ha inoltre conseguenze vistose anche nel settore dei trasporti, in quelli informatico e mediatico e nelle stesse reti di distribuzione dell’energia. Relativamente a queste ultime, Rifkin ne individua una forte vulnerabilità strutturale nei confronti di fattori quali guasti tecnologici, disastri naturali, attacchi terroristici, eccesso di domanda. La maggiorparte dell’energia viene prodotta in un numero relativamente piccolo di centrali elettriche che in molti casi sono ubicate a centinaia di chilometri dai consumatori (negli Stati Uniti, la media di tale distanza è di 350 km). Questo significa che la rete è più facilmente esposta a fattori di rischio, come il maltempo o sabotaggi. L’interruzione di una rete può inoltre determinare la mancata erogazione di energia in tutta la zona geografica interessata al guasto, non discriminando neanche i servizi di prima necessità (gli ospedali o impianti di sicurezza dei trasporti) da quelli non fondamentali. Questo sistema dunque, estremamente rigido, non è in grado in molti casi di affrontare le situazioni di emergenza.

Come ovviare allora alla debolezza di un sistema energetico che mostra oramai segnali evidenti di insostenibilità? Dato il titolo dell’opera, non dovrebbe essere difficile capire la risposta data da Rifkin: l’idrogeno. La seconda parte del libro è in effetti dedicata a spiegare come questo composto chimico possa costituire l’alternativa che sostituirà i carburanti fossili e come si dovrebbe organizzare l’architettura del nuovo modello energetico. L’idrogeno è potenzialmente una fonte d’energia pulita, poco costosa ed estremamente efficiente. Al momento attuale, esistono tuttavia problematiche complesse non ancora superate.

Il problema principale consiste nel trovare una valida modalità che permetta di produrre idrogeno in modo pulito ed economico. Sebbene tale composto sia un elemento presente praticamente ovunque in natura, raramente però si trova allo stato nativo ed è dunque necessario produrlo a partire da altre sostanze. Oggi la produzione dell’idrogeno avviene quasi totalmente utilizzando idrocarburi e in particolare gas naturale e petrolio. In questo modo però, non si risolverebbe la questione della sostenibilità: infatti, oltre a ricadere nelle stesse problematiche descritte in precedenza per i combustibili fossili, tali modalità determinano emissioni di CO2 che risultano estremamente alte. Un altro processo di produzione è quello dell’elettrolisi, una tecnica che utilizza l’elettricità per scindere le molecole di acqua in atomi di idrogeno e di ossigeno. Questa tecnica avrebbe senso solamente se l’elettricità utilizzata fosse in una forma pulita, come quella delle energie rinnovabili. Rifkin ci informa che sono attualmente in corso in più parti del mondo sperimentazioni di vario genere in questo senso. Da altri commentatori però, apprendo che ancora non sono stati ottenuti risultati particolarmente significativi. Al momento, la percentuale di idrogeno prodotto tramite elettrolisi è intorno al 4%.

Trovare una tecnica di produzione dell’idrogeno sostenibile (sia da un punto di vista economico che ambientale) aprirebbe scenari che potrebbero totalmente modificare l’esistenza umana a tutti i livelli. Una possibile applicazione dell’idrogeno per la produzione dell’energia è quella delle celle combustibili, che sono dei dispositivi che permettono di ottenere elettricità senza che avvenga alcun processo di combustione interna. La rivoluzione che determinerebbe la diffusione in larga scala di queste celle consiste in un cambiamento radicale della filosofia di distribuzione dell’energia. Il sistema basato sul petrolio è un modello gerarchizzato, in cui pochi soggetti controllano tutte le fasi del ciclo energetico (estrazione delle materie prime, produzione, ridistribuzione). Rifkin sostiene che a il mercato dell’energia sia dominato da un numero molto ristretto di società, sia pubbliche che private. Scoprire, estrarre, trasportare, raffinare e distribuire petrolio […] sono attività [talmente] complesse e costose [che] solo le maggiori aziende del mondo hanno la capacità finanziaria di gestire l’intero processo, dal pozzo alla pompa di benzina (pag. 94).

Le celle a combustibile basate sull’idrogeno avrebbero invece dei costi ampiamente alla portata di ciascun cittadino. Ogni abitazione, ufficio e persino le automobili potrebbero dotarsi di pile combustibili che producano energia: quest’ultima verrebbe in parte utilizzata per le funzioni private del singolo, in parte immessa in una rete globale che collega tutte le celle. In sostanza, l’economista americano ipotizza una struttura delle rete dell’energia molto simile a quella di internet, chiamata HEW (Hydrogen Energy Web). Tramite l’HEW, tanti piccoli impianti di generazione elettrica ad idrogeno verrebbero interconnessi tra di loro e in questo modo ciascun utente diventerebbe allo stesso tempo fruitore e produttore. L’idrogeno offre dunque la prospettiva di “democratizzare” l’accesso all’energia, rendendola disponibile ad ogni essere umano sulla terra.

Se e in che tempi sia realizzabile lo scenario descritto da Rifkin, è certamente una domanda a cui il sottoscritto non si osa rispondere! Al momento, la nostra fantasia viaggia a ritmi più elevati della ricerca tecnologica. In effetti, oltre al già accennato problema della produzione dell’idrogeno, ancora non si è riuscito a realizzare celle combustibili economicamente sostenibili e con rese energetiche efficienti. E anche qualora le difficoltà tecnologiche venissero superate, subentrerebbero tutta una serie di ostacoli “ideologici” e pratici di risoluzione sicuramente non semplice (oltre ad intaccare i proficui interessi dei grandi produttori di petrolio e di energia, il nuovo sistema richiederebbe una riconversione strutturale a 360 gradi dell’industria, delle reti dei trasporti e di quelle della distribuzione energetica). Tuttavia, io credo che esistano alcuni elementi che inducono ad essere ottimisti:

a) esperienze di distribuzione in rete dell’energia non sono una mera utopia di Rifkin, ma già sono state realizzate con ottimi risultati (come insegna il caso della cittadina tedesca di Shonau, vedi la puntata di
Report del 16/03/2008).

b) il “masochismo” del genere umano deve avere un limite. Se non vogliamo condannare la nostra specie e il nostro pianeta all’autodistruzione, saremo costretti prima o poi a ripensare il nostro stile di vita. E tale riflessione critica coinvolgerà automaticamente anche il rapporto con le fonti energetiche.

c) le nuove generazioni hanno probabilmente una maggiore sensibilità ecologica rispetto alle precedenti, nonchè una maggiore confidenza con la filosofia della rete. Queste due caratteristiche potrebbero rappresentare dunque il volano che porterà ad un “altro mondo possibile”, anche in campo energetico.


Sull'argomento, guarda nel blog l' intervista a Jeremy Rifkin

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