giovedì 12 giugno 2008

McDemocracy's

Dall’11 settembre ad oggi molto spesso ci sentiamo ripetere in modo ossessivo il concetto della necessità, quasi dell’obbligo ineluttabile, di dover “esportare la democrazia”. E molto spesso chi mette in discussione questa dottrina viene etichettato come un no-global e un antiamericano. Sinceramente non sono né l’uno né l’altro, pur criticando fortemente la logica che è alla base del concetto di esportabilità della democrazia. Ritengo semplicemente che un essere umano, in grado di intendere e di volere, abbia il dovere di analizzare e valutare il contenuto di una nozione anziché prenderne per buono il significato perché gli viene semplicemente attribuito da un soggetto più "importante" di noi. Nessuno si pone il problema di andare a conoscere cosa sia in effetti la democrazia e se e come la si può esportare.
La democrazia, così come noi la percepiamo nel mondo occidentale, è un processo che ha radici millenarie. E’ un processo complesso di carattere storico, culturale, politico, economico e sociale, che si è sviluppato lungo un percorso vastissimo che va dall’esperienza delle polis greche a quella del Senato romano, dai Comuni dell’Italia medioevale alla formazione dei grandi Stati nazionali, che passa per secoli di lotte e conflitti, di cambiamenti nella struttura dell’economia e della società. E’ un processo che vede il contributo di filosofi, intellettuali e politologi, da Aristotele a Platone, da Cicerone a Seneca, da Tommaso Moro a Giordano Bruno, da Tommaso Campanella ai vari Rousseau, Voltaire, Hume, fino ai nostri Croce e Bobbio, solo per citarne una minima parte. E questo percorso ha visto anche degenerazioni, basti pensare a cosa ha portato il Italia e Germania la crisi dello Stato liberale nel primo dopoguerra. E tuttora, la forma con cui questo lungo cammino ha avuto espressione varia sensibilmente nelle diverse forme di stato e di governo: ci sono monarchie costituzionali e ci sono repubbliche; ci sono repubbliche parlamentari e repubbliche presidenziali. E non si tratta di differenze formali ininfluenti: pensate se in questo momento l’Italia fosse una Repubblica presidenziale (via in parte tentata con il referendum 2006, fortunatamente bocciato)..saremmo proprietà privata di Berlusconi!
Ragionando su tutto è chiaro che l’accettazione scontata e l’acquiescenza silenziosa alla logicità di esportare la democrazia non può che essere messa in discussione. La democrazia non è un Mc Chicken che si può mangiare in un Mc Donald’s a Londra come a Washington, a Roma come a Mosca, a Rabat come a Johannesburg, a Sidney come a Rihad, a New Delhi come a Islamabad, ad Abu Dabi come a Pechino, che ha sempre lo stesso sapore. La democrazia non è un prodotto esportabile. Non si può pretendere di impacchettare e imporre tutto quel processo millenario tipico dell’Occidente in contesti che hanno esperienze storiche, culturali, sociali, politiche ed economiche totalmente differenti. Tanto meno non lo si può fare con la forza e attraverso guerre palesemente economiche. Bisogna restare quindi indifferenti rispetto a regimi sanguinari e dittatoriali del mondo non-occidentale e lasciare le loro popolazioni oppresse al loro crudo destino? Certo che no. Se infatti, da tutto il nostro cammino, dal lascito dei nostri filosofi, per democrazia intendiamo tutto un insieme di valori finalizzato a garantire diritti fondamentali inalienabili – diritto alla vita, al cibo, all’alloggio, all’istruzione, al lavoro – allora è nostro preciso dovere iniziare questo processo di “democratizzazione” cambiando le nostre stesse modalità di vita, ponendo concretamente queste popolazioni bisognose nella possibilità di emanciparsi dalla loro condizione di povertà cronica attraverso i propri mezzi e le proprie risorse, e soprattutto non lasciandoli nell’indifferenza.

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