« Vita è la donna che ti ama, il vento tra i capelli, il sole sul viso, la passeggiata notturna con un amico. Vita è anche la donna che ti lascia, una giornata di pioggia, l’amico che ti delude. [...] Purtroppo ciò che mi è rimasto non è più vita, è solo un testardo e insensato accanimento nel mantenere attive delle funzioni biologiche. »
(Piergiorgio Welby)
E’ di ieri l’importante pronunciamento della Corte di Cassazione che giudica inammissibile il ricorso della Procura di Milano contro la sentenza della Corte di Appello del capoluogo lombardo che consente il distacco del sondino che consente l’alimentazione ad Eluana Englaro, in stato vegetativo permanente da 16 anni. Il pronunciamento ha riacceso il dibattito e le polemiche su un tema etico estremamente complesso, qual è l’eutanasia. Nel caso specifico, come del resto era avvenuto anche con la vicenda di Terry Schiavo, la circostanza risulta essere ancora più complessa per il fatto che il soggetto non è in grado di intendere e di volere.
La questione dell’eutanasia non investe soltanto l’aspetto etico, morale e filosofico del singolo ammalato, proprietario o usufruttuario del proprio corpo (diritto o no all’autodeterminazione, diritto o meno ad una morte dignitosa), o degli operatori sanitari (rispondere o meno alla disperata invocazione d’aiuto da parte dei sofferenti a fronte delle disposizioni del Giuramento di Ippocrate), ma riveste anche un aspetto legale e giuridico (punibilità o meno di chi presta la propria opera per l’eutanasia). Di fronte a questa complessità quindi il rifiuto di aprire un dibattito, bollando l’eutanasia in tutte le sue forme come omicidio, rappresenta a mio giudizio un’incapacità di analisi del contesto.
Negli ultimi decenni i notevoli progressi della scienza medica se da un lato hanno permesso di debellare e sconfiggere malattie fino a poco tempo fa potenzialmente mortali, dall’altro hanno consentito di tenere in vita un paziente indefinitamente e, comunque, ben oltre il punto in cui si pone il ragionevole dubbio se si sta prolungando la vita o se non, invece, procrastinando inutilmente la morte. Quello che era l’imperativo del "vitalismo", quindi, che imponeva di prolungare ad ogni costo la vita del paziente, era una reazione all’impotenza della medicina, di fronte al fatto drammatico di non poter riuscire a salvare una vita, spesso ancora carica di promesse, che oggi necessariamente chiede di essere rivisto.
Non si può quindi ricondurre l’eutanasia esclusivamente a una questione di carattere teologico o religioso, fermo restando il fatto – e non voglio certo erigermi a teologo – che la morte è nella religione cristiana come nella legge della natura, la normale conclusione dell’esistenza. Se quindi si accusa l’uomo di volersi sostituire a Dio quando intende praticare l’eutanasia, perché la stessa accusa non vale quando lo stesso uomo vuole rendere “immortale”, attaccandolo a delle macchine, un suo simile?
Intervenire per legge sull’eutanasia, o quanto meno sulla disciplina del testamento biologico, così come dimostrato dall’esperienza di paesi, anche cristiani (Olanda, Svezia, Germania, Svizzera, Canada, USA, Belgio, ed altri), significa semplicemente riconoscere un diritto inviolabile dell’uomo: il diritto di scelta. Ogni individuo, in quanto essere razionale, pienamente capace di intendere e di volere, deve essere in grado di vivere la propria vita, di valutare se “eutanasia” è un termine più delicato per dire omicidio, o se la volontà di ricorso ad essa deriva dalla reale, cosciente e consapevole perdita di significato della vita, per dolore o per dignità.
Allo stato attuale in Italia questo non avviene. Al legittimo diritto di un individuo di scegliere la vita, non corrisponde l’altrettanto legittimo diritto di preferire la morte. Non è accettabile che in uno Stato in primo luogo democratico e in secondo luogo laico, un soggetto sia privato della libera sovranità della propria sfera privata.
Continua...