domenica 29 novembre 2009

Niente regali alle mafie, i beni confiscati sono cosa nostra

L'associazione Libera e il suo fondatore don Luigi Ciotti lanciano un appello contro un emendamento introdotto in Senato alla recente finanziaria che prevede la messa in vendita di quei beni confiscati alle mafie che non si riescono a destinare entro 3 o 6 mesi. Ne riportiamo il testo, invitandovi a firmare la petizione su www.libera.it


Tredici anni fa, oltre un milione di cittadini firmarono la petizione che chiedeva al Parlamento di approvare la legge per l'uso sociale dei beni confiscati alle mafie. Un appello raccolto da tutte le forze politiche, che votarono all'unanimità le legge 109/96. Si coronava, così, il sogno di chi, a cominciare da Pio La Torre, aveva pagato con la propria vita l'impegno per sottrarre ai clan le ricchezze accumulate illegalmente.

Oggi quell 'impegno rischia di essere tradito. Un emendamento introdotto in Senato alla legge finanziaria, infatti, prevede la vendita dei beni confiscati che non si riescono a destinare entro tre o sei mesi. E' facile immaginare, grazie alle note capacità delle organizzazioni mafiose di mascherare la loro presenza, chi si farà avanti per comprare ville, case e terreni appartenuti ai boss e che rappresentavano altrettanti simboli del loro potere, costruito con la violenza, il sangue, i soprusi, fino all'intervento dello Stato.

La vendita di quei beni significherà una cosa soltanto: che lo Stato si arrende di fronte alle difficoltà del loro pieno ed effettivo riutilizzo sociale, come prevede la legge. E il ritorno di quei beni nelle disponibilità dei clan a cui erano stati sottratti, grazie al lavoro delle forze dell'ordine e della magistratura, avrà un effetto dirompente sulla stessa credibilità delle istituzioni.

Per queste ragioni chiediamo al governo e al Parlamento di ripensarci e di ritirare l'emendamento sulla vendita dei beni confiscati.
Si rafforzi, piuttosto, l'azione di chi indaga per individuare le ricchezze dei clan. S'introducano norme che facilitano il riutilizzo sociale dei beni e venga data concreta attuazione alla norma che stabilisce la confisca di beni ai corrotti. E vengano destinate innanzitutto ai familiari delle vittime di mafia e ai testimoni di giustizia i soldi e le risorse finanziarie sottratte alle mafie. Ma non vendiamo quei beni confiscati che rappresentano il segno del riscatto di un'Italia civile, onesta e coraggiosa. Perché quei beni sono davvero tutti "cosa nostra"

don Luigi Ciotti
presidente di Libera e Gruppo Abele

Continua...

mercoledì 25 novembre 2009

ELISA CHE VIENE DAL MARE - canto d'amore e solitudine


Tommaso s’innamorò di Elisa un lunedì mattina d’inizio novembre, quando di schianto e senza preavviso arrivò l’inverno sputando aria gelida e pioggia scrosciante.
Lui, trentacinque anni e un monolocale in rovina, con addosso una giacchetta striminzita buona per tiepide serate di metà settembre, percorse tutto il tragitto da casa sua all’università strisciando contro i muri, alla disperata ricerca d’uno spicchio di tetto che potesse proteggerlo. A metà strada, con le scarpe piene d’acqua e le mani congelate, pensò soltanto che tutto quanto, cielo freddo e pioggia, era un disastro, un disastro senza niente da aggiungere.
Lei, ventotto anni e un’ansia perenne addosso, cedette alla previdenza di sua madre e, per la prima volta dallo scorso febbraio, si vestì a strati. Ma il rito del cambio dell’armadio non si era ancora compiuto e appena scesa in strada si scoprì infagottata in un improbabile e casuale mosaico di maglie e maglioni. Si pentì amaramente e di ogni cosa. Della pioggia, del vento, di se stessa e della sua vita sconclusionata, di sua madre e di quella strisciante dittatura con cui la soggiogava dal giorno della sua nascita costringendola a sbagliare praticamente tutto.

A poche decine di metri dall’università, Tommaso pensò a una bella colazione, qualcosa di caldo per scaldare ossa e cuore. Un cappuccino fumante e schiumoso prima di strisciare nel lavoro. Poi però ripensò alla sera prima, all’ennesima cena insensata della domenica, ai venticinque euro bruciati per una pizza di plastica e una birra scialita. Adesso in tasca gli rimanevano sì e no cinque euro e una settimana intera al prossimo stipendio. Rivide la rassegnazione con cui aveva accettato l’invito insistente della banda di amici, il senso tragico e indifferente di abbandono al nulla più assoluto nel tirare fuori le ultime banconote del mese. E adesso, si chiese, adesso che faccio? Cinque giorni senza un soldo non sono poi tanti e si può pur sopravvivere, ma poi? Qualche mese ancora e questo dottorato finirà, e allora addio borsa di studio, addio accredito bancario puntuale come la morte ogni venti del mese. Cosa ne vogliamo fare di questa vita ragazzo? La risposta non arrivò o non volle darsela.

“Prego, si sieda pure signorina”.
Elisa era a disagio. La prima maglia dello strato era infeltrita e le graffiava la pelle, fredda nonostante tutto. E poi il professore non la guardava nemmeno negli occhi, parlava secco e sbrigativo, interpellandola praticamente mai e desideroso di liquidarla al più presto. Era il suo primo giorno di dottorato e già si sentiva fuori posto. Completamente e senza soluzione.
“Tutto chiaro signorina?”, chiese alla fine il professore iniziando a firmare diligentemente una pila di carte intestate.
In realtà no, non è chiaro un bel niente, non so più perché sono qui, sono fradicia, ho i capelli sconvolti e ho solo voglia di urlare. Ma non disse niente, si limitò a rispondere con un sì quasi impercettibile e dopo aver salutato entrò per la prima volta nell’ufficio del dipartimento, senza avere la minima idea di cosa dovesse fare.

Tommaso si era laureato in storia del cinema dieci anni prima. La tesi, su André Bazin e sui Cahiers du Cinéma, era stata un’avventura esaltante consumata tra Firenze e Parigi. Tutto magnifico: i viaggi in treno di notte, gli arrivi all’alba alla stazione di Bercy, le musiche di strada del Pont Neuf, le pile di riviste da consultare alla Bibliothéque Nationale, l’inseparabile computer portatile su cui ticchettava la sua tesi grondante d’ispirazione, e quel giorno indimenticabile di primavera quando era riuscito a intervistare Alain Resnais. E si era sentito immortale e invincibile. Poi c’era stata la discussione, l’annunciato centodieci con lode, il plauso unanime della commissione, i sorrisi di amici e parenti. Il mondo era una gigantesca ostrica da percorrere in lungo e in largo e il futuro un immenso punto interrogativo che non lo preoccupava affatto: lui poteva fare qualsiasi cosa, perché aveva preso centodieci e lode, perché aveva intervistato Alain Resnais, perché aveva venticinque anni.
E a quel punto interrogativo Tommaso s’era aggrappato senza troppi pensieri, affogando beatamente in anni di ozio creativo, collaborazioni saltuarie con riviste, organizzazioni di eventi, festival, cortometraggi, corsi di formazione, decine di lavoretti occasionali e pure un libro pubblicato. Tutto e niente, perché basta davvero poco, pochissimo, per vivere e sopravvivere quando si è giovani e felici.
A trent’anni aveva iniziato a insegnare storia del cinema in un’accademia per aspiranti registi, attori e sceneggiatori. Un vago entusiasmo iniziale per quello che, di fatto, era il primo lavoro fisso della sua vita, si era spento dopo qualche mese: quell’accademia era buia e squallida, una triste macchina di cartone mangiasoldi, completamente inutile ai sogni confusi e alle ingenuità imbarazzanti degli studenti. Per di più le sue lezioni non interessavano nessuno e Tommaso, d’improvviso e per la prima volta in vita sua, aveva iniziato a sentire il passare del tempo. Il suo curriculum aveva preso a profumare di rimpianto, ripensava a Parigi, ad Alain Resnais, al centodieci e lode, ai complimenti con cui lo incensavano tutti quelli che gli stavano accanto, convinti che lui più di chiunque altro avrebbe spaccato il mondo. E poi cos’era successo? Dove, esattamente, si era smarrito?
In due anni di accademia era finito a letto con cinque o sei di quelle aspiranti attricette senza alcun futuro possibile, cercando in quegli occhi e fra quelle cosce nient’altro che stima, ammirazione, adorazione. Da troppo tempo nessuno gli diceva più quanto fosse bravo e speciale, e di quella mancanza ne stava lentamente morendo. A ognuna di quelle tristi amanti provava a raccontare di come, un remoto pomeriggio di primavera parigina, era riuscito a intervistare nientemeno che Alain Resnais. Ma tutte rimanevano con lo sguardo perplesso e interrogativo, non sapendo minimamente chi fosse questo Alain Resnais. E ogni volta Tommaso non riusciva a non soffrirne, ogni volta provava a chiedersi perché, perché non riusciva ad accontentarsi di quel sesso facile e senza troppi sforzi. Ma non gli bastava, non gli sarebbe bastato mai che giovani donne piacenti gli si infilassero nel letto per una semplice e banale attrazione senza domani. Voleva di più, voleva essere venerato, voleva che ogni amante di una sola notte ricordasse per tutta la vita di aver scopato selvaggiamente con chi, un tiepido pomeriggio primaverile, aveva varcato la soglia della casa di Alain Resnais per intervistarlo.
Alla fine del secondo anno di corsi Tommaso aveva lasciato l’accademia ed era tornato all’ovile. Con la coda tra le gambe e un pesante senso di sconfitta nel cuore, si era ripresentato dal relatore della sua tesi. E il professore, senza batter ciglio e nonostante tutti quegli anni passati, gli aveva proposto seduta stante un dottorato con tanto di borsa di studio. Avrebbe dovuto sentirsi schifosamente fortunato, baciato dalla miglior sorte possibile: c’era gente che lottava per anni contro i mulini a vento per ottenere quella borsa, sbattendo e annegando in concorsi fallimentari e dottorati gratuiti, mentre lui, reduce da sette anni di esilio volontario dal mondo accademico, senza alcuno sforzo si ritrovava un assegno mensile per tre anni servito su un piatto d’argento. Ma Tommaso si sentì tutto fuorché fortunato: accettò la proposta con rassegnazione e cuore pesante, come fosse il degno epilogo d’una vita fallimentare. Sette anni prima, dopo la laurea, a chi gli chiedeva “farai il dottorato?”, rispondeva tronfio “neanche morto”, lasciando intravedere tra le pieghe d’un sorriso diabolico chissà quali altri e più enormi progetti. Si sentiva un eroe. Ma oggi non era più quell’eroe, e forse non lo era mai stato.
Adesso Tommaso si apprestava a concludere tre anni di dottorato vissuti in grigio, con una tesi sulle riviste cinematografiche italiane degli anni venti in cui non era mai riuscito a trovarci qualcosa di bello. Aveva provato a riproporre Parigi, la nouvelle vague, il suo amato Resnais. Ma i progetti del dipartimento erano di tutt’altro tipo e lui aveva dovuto adeguarsi. E in quell’archivio, a sfogliare centinaia di stupide riviste, sentiva di aver definitivamente ucciso la sua giovinezza.

Quella mattina di inizio novembre in cui si innamorò di Elisa, dopo aver fatto una paccata di fotocopie ignorandone l’utilità, Leonardo, suo compagno di dottorato e frustrazioni varie, gli propose una pausa al bar aggiungendo “e stavolta tocca a me offrire”. Tommaso, provvisoriamente ridotto in miseria, accolse l’idea dell’amico con un sospiro di sollievo: erano tre ore che sognava un cappuccino caldo, ma non poteva permetterselo.
Stava uscendo dal dipartimento per andare al bar quando Elisa, a testa bassa e rapida come una gatta, gli passò ad appena due centimetri. Tommaso la squadrò dalla testa ai piedi, seguendola con lo sguardo mentre saliva le scale a passo spedito.
“E quella ragazza chi è?”, chiese fingendo disinteresse.
“E’ arrivata stamattina”, rispose Leonardo quasi distratto, “è una nuova dottoranda…quindi una nuova disgraziata!”.
“Ma lo fa con noi? Non l’ho mai vista…”.
“No, no…è di storia dell’arte, si chiama Elisa…”.
Elisa. Un nome che, chissà perché, a Tommaso ricordava il mare. L’aveva vista per pochi attimi ma già gli s’era impressa nella mente con quel viso diafano e pulito, gli occhiali leggeri, i capelli castani e sottili, i jeans che gli disegnavano perfettamente le gambe.
“Ma la conosci?”, chiese ancora.
“No, è che è arrivata stamattina presto, e per sbaglio è entrata nel nostro ufficio…”.
Peccato non essere stato lì in quel momento, pensò Tommaso, peccato aver perso tempo per strada a pensare ai soldi polverizzati e a tutto il resto: avrei potuto accompagnarla al suo ufficio, presentarmi, darle la mano, scambiarci due chiacchiere e….
Non terminò quei pensieri ma poco dopo al bar, con finalmente davanti il sospirato cappuccino, decise di essersene innamorato.

Elisa si era laureata due anni prima in storia dell’arte moderna. Avrebbe voluto fare una scuola di restauro dopo la laurea, ma avrebbe dovuto fare i bagagli e lasciare Firenze, andare a Milano o a Torino. Non ne aveva avuto il coraggio: troppe volte sua madre le aveva ripetuto che cavarsela da sola sarebbe stato troppo difficile, che le città del nord erano fredde e spietate, che mantenerla fuori casa sarebbe stata una spesa enorme. Il resto lo aveva fatto Luca, un fidanzato quasi ingegnere che non credeva nei rapporti a distanza e che le aveva più volte sussurrato che, appena laureato, l’avrebbe sposata. Erano parole distratte, dette senza convinzione, ma Elisa ci aveva creduto lo stesso. Così alla fine aveva rinunciato alla scuola di restauro quasi euforica, iscrivendosi alle liste del provveditorato per le supplenze in storia dell’arte e disegno e fantasticando sul suo futuro di professoressa delle medie, moglie di un ingegnere e madre di due o tre figli. Si immaginava con il pancione in ampi e colorati vestiti premaman, e perdendosi in quei pensieri riusciva quasi a commuoversi.
Ma dal provveditorato nessuno la chiamava mai, nemmeno per una misera supplenza di due settimane. Consigliata da un’amica aveva provato anche il concorso di dottorato, ma era andato male. E alla fine, il fidanzato quasi ingegnere che sarebbe dovuto diventare il padre dei suoi figli, l’aveva lasciata. Un anno esatto dopo la laurea, una tiepida e generosa serata di dicembre, Luca l’aveva portata fuori a cena dichiarando che avrebbe dovuto dirle cose molto importanti. Elisa aveva pensato subito a un’ufficiale proposta di matrimonio, e per l’occasione aveva pure sfoggiato una gonna stretta appena sopra il ginocchio, proprio lei, che aveva orrore delle sue gambe e le gonne le evitava anche nelle grandi occasioni. Ma invece dell’anello quella sera aveva ricevuto il benservito.
“Non mi stimoli”, aveva detto Luca secco e senza affetto, in tutta risposta ai perché dolenti e piangenti di Elisa. Era stato come ricevere una coltellata in pieno petto, di colpo si era sentita nuda e indifesa, ridicola, brutta e grottesca con quella gonna, quelle scarpe e quel trucco. “Non mi stimoli”. Una volta a casa, da sola, nel silenzio delle due di notte, senza riuscire a smettere di piangere si era strappata le calze con le mani fino a ridurle in mille frantumi e filamenti. “Non mi stimoli”. Si odiava, odiava le sue gambe e odiava tutta se stessa, perché Luca l’aveva lasciata, perché oltre quella relazione non aveva nient’altro e perché senz’altro ne era l’unica responsabile. Non mi stimoli, non mi stimoli, non mi stimoli. Quelle parole le erano rimbombate in testa per mesi.
Eppure, durante il tremendo periodo di lutto che era seguito a quella sera disgraziata, non le era mancato tanto Luca come persona. Le era mancata l’idea di lui, l’idea di avere una persona accanto, l’idea di essere amata. Ma questo era ancora più triste e spaventoso: non riusciva a sopportare il fatto di sentirsi tranquilla e realizzata solo con un uomo accanto, solo vivendo nella sua ombra e nutrendosi dei suoi successi. Una passione ce l’aveva, il restauro, e l’aveva calpestata in nome di un amore fasullo e di antiche paure. E non si sentiva in grado di rimediare.
Tanto per riempire quelle giornate vuote, Elisa aveva iniziato a lavorare part time per una cooperativa sociale. Cinque euro e cinquanta all’ora, appena i soldi per uscire un paio di sere alla settimana senza doverli chiedere, come sempre, a sua madre che, dopo la fine della storia con Luca, sembrava guardarla con disprezzo e sospetto crescente.
All’inizio dell’estate aveva deciso di provare di nuovo il concorso per il dottorato e si era rimessa a studiare di brutto. Di altri uomini, dopo Luca, neanche a parlarne. Tranne una sera d’agosto, quando senza neanche accorgersene si era ritrovata ubriaca fradicia a ballare in mezzo alla pista di una festa improvvisata. Elisa non beveva mai e le era facilissimo perdere il controllo con appena due birre. Così si era lasciata andare agli sguardi di un biondino dai capelli corti e gentile quanto basta. E dopo gli sguardi, i balli, lo sfiorarsi furtivo e qualche bacio appena accennato, il biondino l’aveva trascinata via tra gli alberi della pineta che circondava la festa. Lei lo aveva seguito arrendevole e ciondolante ma poi, una volta in pineta, non appena il biondino le aveva cinto i fianchi provando a baciarla, era scoppiata a piangere. Lui si era spaventato, e dopo un paio di frettolose carezze di consolazione alla prima occasione buona se l’era data a gambe, lasciandola sola, ubriaca e lacrimosa. È che appena aveva sentito le mani di quel ragazzo sconosciuto scendere lentamente dai fianchi alle cosce coperte da pantaloni leggeri di lino, le era piombata addosso la voce di Luca che con tono ancora più gelido le diceva “non mi stimoli”. Si era messa a piangere perché aveva paura, paura di non farcela, paura che anche quel ragazzo non si sentisse stimolato da lei. E per di più sua madre, che nascosta da qualche parte in mezzo a quegli alberi la stava sicuramente guardando sussurrandole “otto mesi fa ti dovevi sposare e adesso sei una troietta senza nessuno e senza lavoro che si fa rimorchiare dagli sconosciuti…ma non ti vergogni?”.
Quella sera era tornata a casa facendosi pena da sola, sentendosi una vecchia zitella inacidita, cattiva e sfigata. Per non pensarci più aveva trascorso il resto dell’estate studiando giorno e notte, e alla fine il concorso di dottorato era andato bene. Adesso aveva anche lei il suo bell’assegno mensile per tre anni, ma non riusciva a esserne felice: non era quel che voleva, ma solo un compromesso migliore di qualche altro.

A metà pomeriggio era già buio e pioveva ancora. Una volta a casa provò invano a fare qualcosa per ammazzare il tempo, ma non aveva assolutamente niente da fare. Pensando e pensando giudicò quel primo giorno di dottorato tra il confuso e il disastroso, e sentenziò che il giorno dopo sarebbe stato anche peggio. Per tutta la mattina non aveva fatto altro che rimbalzare da un ufficio all’altro senza capire minimamente cosa stesse facendo, i suoi nuovi colleghi e tutti quelli che affollavano le stanze del dipartimento avevano facce disumane e ingrigite, e per lei nemmeno una parola di conforto o vagamente gentile. E poi quel ragazzo incrociato nel corridoio…Elisa aveva sentito i suoi occhi addosso che la squadravano, la sezionavano, la giudicavano. E che sicuramente la schernivano per quel look assurdo e disordinato con cui si era presentata al lavoro. Si era vergognata da morire ed aveva accelerato il passo su per le scale.
Unica consolazione era sua madre fuori casa fino a sera, ma quel tempo non l’aiutava, non l’aiutava per niente: la pioggia sbatteva contro il vetro mettendole addosso una malinconia antica senza nome né colore. Decise che odiava l’inverno, che l’odiava con tutto il suo cuore.

Per tutto il pomeriggio Tommaso sperò che l’ultimo capitolo della sua tesi sulle riviste di cinema degli anni venti si completasse da solo. I tasti del computer erano duri come macigni e in quattro ore abbondanti non gli uscì nemmeno una frase vagamente decente. Alla fine rimandò la conclusione del suo lavoro al giorno dopo. Se avesse avuto qualche soldo in tasca si sarebbe infilato in un qualsiasi irish pub del centro a bere birra e a guardare fino a sera gli highlits della Premier League, e magari tra un gol e l’altro avrebbe attaccato bottone con una comitiva di americani sbronzi e rumorosi, li avrebbe seguiti ad una qualche festa improbabile e sarebbe finito in un angolo a pomiciare con una ragazzetta bionda della Louisiana, mascella prorompente e scollatura infinita. Quel pensiero finì per intristirlo ancora di più e concluse che in fondo era meglio non avere il becco d’un quattrino. Poi pensò ai suoi ultimi due mesi di dottorato e alla fine imminente di quel maledetto assegno. Forse era ora di cercare qualcosa, un qualsiasi lavoro per sopravvivere, tanto quella stupida tesi e quel ridicolo titolo di “dottore di ricerca” non gli sarebbero serviti a niente. Con l’angoscia a scavargli ampi solchi nello stomaco finì quasi per rimpiangere l’accademia, le videocamere digitali in fila senza grazia, le minigonne e le cosce scoperte di quelle attricette dalla voce stridula.
In quel groviglio di pensieri gli tornò in mente Elisa, quell’apparizione sfuggente vista pochi attimi la mattina e che per chissà quale alchimia strana gli era entrata all’istante nel cuore. Pensare ad Elisa lo sollevò un po’ dall’angoscia. Il suo nome gli ricordava il mare, la sabbia, le conchiglie. Forse quella ragazza avrebbe potuto dare un senso a quei suoi ultimi mesi di dipartimento, avrebbe potuto dargli la forza di finire la tesi e poi di ricominciare tutto daccapo. Decise che il giorno dopo l’avrebbe cercata, conosciuta, si sarebbe offerto come Cicerone per guidarla nei dedali infiniti dell’università. E sarebbe nata un’immensa storia d’amore.

Ore dopo, alle dieci e mezza di sera, senza sapere niente l’uno dell’altra, Tommaso ed Elisa stavano entrambi con lo sguardo incollato alla finestra a fissare la pioggia scrosciante e i riverberi abbaglianti delle macchine nel traffico congestionato. Ma quell’inverno istantaneo e violento non c’entrava niente con la loro angoscia. Non erano certo il freddo penetrante nelle ossa, la pioggia battente, le mani intirizzite e i vestiti sbagliati a piantargli macigni di tristezza nello stomaco. Era la solitudine. E d’inverno si è ancora più soli. D’inverno le settimane diventano eterne, i telefoni smettono di squillare e nessuno esce più la sera, e se si esce si esce a coppie, a clan, e chi non ne fa parte è condannato a lunghi silenzi e pensieri senza via d’uscita.
Tommaso guardò la televisione senza prestarci attenzione per più di due ore, almeno tre volte provò senza successo a scrivere qualche paragrafo della tesi e infine lesse un paio di vecchi fumetti. Si arrese dal sonno soltanto alle due passate.
Elisa invece si addormentò quasi subito, poco dopo le undici, svegliandosi alle cinque sudata e lievemente scossa da un brutto sogno che però non riuscì mai a ricordare.

La mattina seguente Tommaso non compicciò niente al lavoro, impegnato com’era a cercare Elisa. Uscì dall’ufficio centinaia di volte e percorse all’infinito il corridoio, le scale, sostando ogni volta che poteva davanti a ogni ufficio di storia dell’arte. Ma di Elisa nessuna traccia. Sconfitto e deluso, alle due staccò dal lavoro e tornò a casa, spendendo pure gli ultimi miseri spiccioli che gli restavano per un pacchetto di sigarette. Adesso in tasca aveva esattamente quarantatre centesimi, e venerdì sembrava distante anni luce.

Quella mattina Elisa era stata in dipartimento appena dieci minuti. Giusto il tempo di essere ricevuta dall’assistente del suo professore che le aveva consegnato un foglietto spiegazzato su cui erano scarabocchiati dei turni di massima. La sua presenza in ufficio era richiesta quasi sempre soltanto il pomeriggio, così che la mattina poteva dedicarsi alle sue ricerche in biblioteca. Quali ricerche?, avrebbe voluto chiedere, visto che non mi è stato ancora assegnato nessun argomento, e soprattutto perché non me lo avete detto ieri e mi avete fatto attraversare la città in un’altra mattina infernale? Ma non chiese niente, e accettò tutto in silenzio.

Anche il giorno dopo, mercoledì, Tommaso cercò Elisa per tutta la mattina in ogni angolo del dipartimento. Ma nemmeno stavolta riuscì a trovarla e finì per convincersi che quell’apparizione di due giorni fa non era stata altro che l’ennesima illusione, l’ennesima speranza tradita. Smise allora di cercarla, di pensarla, e provò a rituffarsi nell’ultimo capitolo della sua odiata tesi.

“Pronto Eli, sono la Simo…ti disturbo?”
“Ciao Simo, dimmi pure…”
“Volevo dirti che sabato sera faccio una festicciola per il mio compleanno…niente di che, una cosa così a casa mia…se non hai impegni…”
“Certo che vengo, grazie…”
“Ma figurati, grazie a te! Come va il dottorato?”
“Mah…non so che dirti…sono qui solo da tre giorni…”
“Vabbè, sabato poi mi racconti tutto, ok?”
“Ok…”
“Ah…senti…”
“Cosa?”
“Se sabato vuoi portare qualcuno, fai pure, nessun problema! Ciao bella!”
“Ciao…”
Elisa riattaccò il telefono sbattendo la cornetta e mormorando tra i denti “stronza!”. L’aveva senz’altro detto apposta, “se vuoi portare qualcuno fai pure”, perché sapeva benissimo che era sola, sola come un cane, sola come la peggiore sfigata del mondo. Lo sapeva alla perfezione e l’aveva detto solo per avere modo, sabato, di fare l’espressione falsamente stupita e squittire “Ma come Eli, sei venuta sola?”. Simona era fatta così: magra, slanciata, occhioni verdi da cerbiatto, quarta naturale, vita sociale a mille e una stronzaggine innata e insopportabile. Quel mercoledì sera Elisa la odiò ancora di più. E odiò ancora di più se stessa, perché quando Simona la stronza le aveva detto, sadica, “se non hai impegni”, lei non aveva trovato niente di meglio che risponderle “certo che vengo”. Elisa si diede della cretina mille volte: avrebbe dovuto dirle non so, vediamo, fammici pensare, se riesco a liberarmi vengo volentieri. C’erano centinaia di ottime risposte possibili, e lei aveva beccato l’unica sbagliata. Ancora una volta non era stata capace di tirare fuori le unghie davanti all’aggressività spietata del mondo, ancora una volta non aveva saputo far altro che prestare il fianco ai leoni inferociti.

“A che punto siamo?”
“Buono, devo solo limare l’ultimo capitolo…”
“Pensa di farcela per la prossima settimana?”
“Sì, senz’altro…”
Tommaso non voleva proprio crederci, ma aveva compiuto il suo ennesimo e definitivo capolavoro d’idiozia. “Senz’altro”, proprio così aveva detto al suo professore ostentando un’invidiabile faccia di culo. Il capitolo non era semplicemente da “limare”, era da scrivere in toto, e farlo in una settimana aveva il sapore di un’impresa disperata. Uscito dall’ufficio del prof cercò una sigaretta per calmarsi, ma le aveva finite e non aveva soldi per comprarle. Fortuna che ormai era giovedì, e la mattina dopo avrebbe finalmente trovato il sospirato accredito mensile sul suo conto. Se però per qualche caso ci fosse stato un piccolo ritardo, avrebbe trascorso un fine settimana a dir poco infernale. Non volle pensarci. Quell’incontro suicida lo aveva tenuto in dipartimento fino a pomeriggio inoltrato: pensò che doveva fare delle fotocopie e si consolò all’idea che almeno, a quell’ora, il dipartimento era quasi deserto e avrebbe fatto in fretta.
Quasi svenne Tommaso quando, nella stanza delle fotocopiatrici e delle stampanti, vide davanti a sé Elisa, sommersa tra quintali di carta nel disperato tentativo di far ripartire una macchina incantata.
Allora esiste ancora, pensò Tommaso brevemente, allora posso ancora innamorarmi di lei. Poi, con un sorriso spalancato sul cuore, le disse “Si è inceppata?”.
Elisa trasalì. Concentrata com’era su quei bottoni sconosciuti e incomprensibili non lo aveva nemmeno sentito entrare. Si voltò di scatto, guardandolo con un misto di paura e disagio.
“Scusami, ti ho spaventata?”, chiese ancora, dolce, Tommaso.
Sì, certo che mi hai spaventata, pensò Elisa tirando un sospiro. Poi lo mise a fuoco e lo riconobbe: era quel ragazzo che aveva incrociato lunedì, quello che l’aveva squadrata e senz’altro schernita. Si sentì ancor più a disagio e desiderò sparire, dissolversi, o che per qualche motivo svanisse lui.
“Posso aiutarti?”, insistette Tommaso nonostante Elisa ancora non lo avesse degnato di nemmeno una risposta.
“Ma no, figurati…”, riuscì a dire lei alla fine, abbassando il capo ed evitando di incrociare i suoi occhi, “è che non riesco a capire come farla ripartire…”.
Lui le regalò un altro sorriso, e avvicinandosi disse “Non ti preoccupare, si bloccano spesso…ormai ci sono abituato…”. Poi prese in mano la situazione, aprì lo sportello, lo richiuse, schiacciò due tasti e la fotocopiatrice, d’incanto, riprese a sfornare fogli. “Ecco fatto…purtroppo qui a tecnologia siamo ancora nel giurassico”, concluse Tommaso sorridendo ancora.
E all’ennesimo sorriso, per di più con la fotocopiatrice miracolosamente funzionante, Elisa si rilassò. Era il primo gesto gentile che riceveva da quando era lì dentro, e quel ragazzo era anche carino, un bel profilo, rughe d’espressione attorno ad occhi grandi e velatamente malinconici. In una sola parola, affascinante.
“Scusa, non mi sono nemmeno presentato…mi chiamo Tommaso!”.
“Elisa”, disse lei tendendogli la mano.
Lo so, pensò Tommaso, so che ti chiami Elisa e che probabilmente vieni dal mare.
“Sei una nuova dottoranda?”
“Si, ho cominciato lunedì…faccio storia dell’arte…e tu?”
So anche questo, pensò ancora Tommaso. Quello che non so è perché nei giorni scorsi non ti ho mai vista. Cercò il modo di chiarirsi quel dubbio, e alla fine le disse “Io sono un vecchio dottorando, finisco fra due mesi…storia del cinema…strano che non ti abbia mai visto in questi giorni…”.
“A parte il venerdì, ci sono sempre di pomeriggio….”.
Adesso ho capito tutto, semplice problema di orari, si tranquillizzò Tommaso. Solo che adesso cosa facciamo Elisa? Adesso che posso guardarti meglio e con calma mi sembri ancora più bella, con questo sguardo timido e inquieto che guarda sempre da un’altra parte, con questa maglietta nera dalla scollatura appena accennata. Vorrei offrirti un caffè, e poi perdermi con te nelle luci della prima sera, ma oggi non ho un soldo, non posso offrirti niente né invitarti da nessuna parte, oggi posso soltanto tirarla per le lunghe con chiacchiere che spero divertenti, inventarmi qualcosa per tenerti qui con me il più possibile.
Elisa lo ascoltò parlare e scherzare. Rise più volte, sentendosi vagamente felice e anche…sì, anche stranamente eccitata, pur facendo un po’ di fatica ad ammetterlo. Sentì gli occhi furtivi di Tommaso posarsi più volte sul suo seno e non se la prese a male, ma si sentì euforica e arrossita. Poi con la coda dell’occhio scorse l’orologio a parete e vide che era tardi, tremendamente tardi, e il professore la stava aspettando al piano di sotto.
“Scusami”, disse Elisa col cuore pesantissimo, “devo proprio andare, mi dispiace, il professore mi sta aspettando!”.
Tommaso fece una smorfia di disappunto e poi, dolce e sincero, le disse “Ci mancherebbe…vai, vai pure…poi magari ci becchiamo domani…”.
“Sì”, rispose lei infilando la porta, “domani poi ci sono di mattina…”.
“E allora venerdì sarà il nostro giorno…”, concluse Tommaso guardandola sparire per le scale e imbarazzandosi da solo.

La sera, a casa, Tommaso restò con la televisione e il computer spento, ascoltando vecchi dischi e fantasticando per ore su Elisa, Elisa e il mare, Elisa e il suo camminare leggero che a ogni passo sembra quasi chiedere per favore, Elisa e quel suo sorriso timido e infinito, Elisa e le sue gambe splendide.
Elisa invece non fantasticò, ma si addormentò serena e sorridente come non le accadeva da tempo. E la mattina dopo si svegliò con la netta sensazione di aver sognato Tommaso.

Quel fatidico venerdì mattina Tommaso trovò sul suo conto il sospirato accredito. Lo prese come un ottimo presagio. Così aspettò paziente l’una e mezzo, ora più che dignitosa per staccare e fare in modo di intercettare Elisa e uscire insieme a lei dal dipartimento.
Appena la vide uscire dal suo ufficio, iniziò a battergli forte il cuore. “Come stai?”, le chiese quasi balbettando, “E’ andata bene oggi?”.
“Più o meno…”, rispose lei con una smorfia allegra.
Senza dirsi nient’altro uscirono insieme dal dipartimento e si ritrovarono a camminare fianco a fianco nel centro di Firenze. Faceva ancora più freddo che a inizio settimana, ma nessuno dei due sembrava preoccuparsene: bastava quell’impercettibile e quasi casuale sfiorarsi procedendo accanto lungo i marciapiede a riscaldarli. Parlarono di stagioni, di caldo e freddo, di università, di dottorati, di professori. Discorsi vaghi, parole leggere come il fumo delle sigarette di Tommaso, parole che nascondevano e intendevano tutt’altro, la voglia di restare insieme tutto il giorno, di prendersi per mano, di conoscersi ed esplorarsi da cima a fondo. La voglia di innamorarsi.
Dio mio come sei bella Elisa, pensò Tommaso mentre continuava a parlare di niente per evitare qualsiasi silenzio, hai mani piccole e delicate, e la tua voce mi arriva dentro e mi scioglie il cuore. Elisa tu vieni senza dubbio dal mare, sei nata da una conchiglia e il tuo respiro ha il suono delle onde. E allora dai, andiamo a mangiare in una trattoria che conosco a pochi passi da qui, ci sono le tovaglie a quadretti che odorano di domenica in campagna e il vino in caraffe di vetro, e tu ed io potremmo guardarci negli occhi al riparo dai rumori della strada. E poi potremmo andare a un cinema lì vicino, minuscolo e con le sedie di legno, dove fanno Tarantino in lingua originale, e al buio di quella sala che sarà per forza semideserta potremo darci la mano e baciarci e amarci e….
“L’ultimo film di Tarantino ancora non l’ho visto. Vorrei vederlo in lingua originale, lo danno in un cinema piccolissimo qui accanto…”, disse Tommaso senza tirare il fiato e col cuore in gola, sperando che lei sapesse cogliere al volo quell’invito velato.
Elisa in quel momento stava pensando alla festa del giorno dopo e a come sarebbe stato bello andarci assieme a Tommaso, ammutolire Simona la stronza e tutte le altre iene al suo seguito. Fantasticò su quell’imminente sabato sera, immaginandosi sicura e disinvolta, noncurante del resto del mondo. E ce ne andremo presto, sognò ancora Elisa, rideremo insieme della stupidità degli invitati e poi ci baceremo nel buio di una strada deserta, lui mi porterà a casa sua e io lo seguirò senza paura, perché mi sentirò forte tra le sue braccia e me ne fregherò di tutto, di Luca e dei suoi stimoli, delle manie di mia madre, del fatto che è un anno che non tocco un uomo. E potrei anche lasciar scivolare la sua testa fra le mie gambe e farlo arrivare dove nessun uomo è arrivato mai e poi…poi…
Elisa riemerse dalle sue fantasie quando si accorse che Tommaso continuava a parlare e lei non lo stava ascoltando. Stava parlando dell’ultimo film di Quentin Tarantino che davano in lingua originale in un cinemino lì accanto. È un invito?, si chiese Elisa. E se è un invito, perché non me lo chiede direttamente? Chiedimelo e ti dirò sì senza pensarci nemmeno un secondo.
Ma Tommaso non glie lo chiese, continuò a girarci intorno aspettando un cenno da Elisa che non arrivò. E finì per convincersi che la ragazza non aveva nessuna intenzione di passare il pomeriggio in un cinema buio assieme a lui.
“Poi non so…Tarantino mi suscita reazioni contrastanti, a volte penso sia un genio, altre volte…boh…”, concluse Tommaso in evidente ritirata, con la sconfitta ormai stampata in faccia.
Non era un invito allora, pensò Elisa secca, disillusa e definitiva.
Bastò quella piccola e insignificante incomprensione, lieve come il frusciare di una foglia, a far crollare tutto. Erano entrambi ammalati di solitudine, e la paura prese a divorarli come un cancro.
Si fermarono in piazza San Marco, alla pensilina degli autobus. Stettero per un po’ in un silenzio paranoico e pesantissimo. Poi arrivò il 23 ed Elisa disse “Ecco il mio autobus”, sperando tuttavia che lui la fermasse in qualche modo.
Tommaso osservò il lento arrivo dell’autobus, ascoltò lo sbuffo della frenata. Avrebbe voluto trattenerla, trovare quelle parole secche, dirette e inequivocabili per invitarla a pranzo, al cinema, a cena, ovunque purché restasse insieme a lui. Ma la sentiva lontana e distante, e il terrore di sentirsi rifiutato e respinto lo vinse definitivamente.
Quando si aprirono le porte del 23 Elisa ebbe un attimo di esitazione. In meno di un secondo pensò adesso glie lo dico che non voglio tornare a casa, glie lo dico e al diavolo tutte le paure. Ma non ebbe la forza e salì sull’autobus.
“Allora…ci vediamo venerdì…”, riuscì a dire Tommaso.
“Ok, a venerdì…”, rispose Elisa.
Le porte si chiusero e il 23 partì in direzione Nuovo Pignone. Tommaso diede un debole calcio a una cartaccia abbandonata a terra, girò i tacchi e pensò che forse poteva ancora rimediare a quel disastro, forse c’era ancora rimedio alla sua idiozia. Forse poteva cercare Elisa nel pomeriggio e dirle….ma dove e come la cerco?, si chiese, non le ho nemmeno chiesto il numero di telefono.
Elisa, sull’autobus, non si voltò verso la piazza a guardarlo. Pensò soltanto al week end che le si prospettava, alla festa di Simona la stronza da viversi in completa solitudine, alla domenica pomeriggio di ansia e pioggia.
“Venerdì…ci vediamo venerdì…”, ripeté a se stessa con un filo di voce. Ma da qui a venerdì, pensò ancora, c’è un’intera settimana di nulla cui sopravvivere.
Da qui a venerdì, c’è una vita.

RICCARDO LESTINI,
novembre ’09+

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martedì 24 novembre 2009

Acqua: bisogno fondamentale dell'uomo, un crimine la privatizzazione


Riceviamo e volentieri pubblichiamo questa lettera di Stefano Ferrario contro i recenti provvedimenti legislativi che hanno sancito la privatizzazione dell'acqua pubblica in Italia.

Carissimi, per una volta concedetemi di non inviarvi informazioni sul militare 'made in Italy'. Vi voglio parlare di acqua. Anche in questo caso vi chiedo di diffondere la mail tra i vostri canali di mailinglist e web, soprattutto verso chi non la pensa similmente a noi....La privatizzazione dell'acqua pubblica in italia è un fatto molto molto grave. Il disegno di legge Ronchi, sul quale era imposta la fiducia alla Camera dei Deputati, è divenuto legge giovedì pomeriggio.

E' bene ricordare alcune considerazioni:

- l'acqua non è neanche un diritto, ma uno dei due bisogni fondamentali dell'uomo. Fa parte dell'alimentazione (primo bisogno). Il secondo è la relazione con il suo prossimo. L'uomo, senza uno o senza l'altro bisogno, si ammala, muore.... o se c'è un deterioramento dell'uno e/o dell'altro l'uomo sta male e soffre. Questa settimana si è chiuso anche il vertice FAO a Roma, con un nulla di fatto. Ci viene ricordato che ogni sei secondi, una persona al mondo muore di fame. Come vediamo quando il bisogno alimentazione non funziona, ci sono squilibri forti, sino alla morte. E come bisogno, non può essere acquistato da nessuno. Non è in vendita. Il "bisogno" è più forte e chiaro del "diritto". Il diritto lo possiamo concertare, ma il bisogno è bene non 'trattabile' e immutabile nel tempo. E' chiaro che privatizzare un bisogno non è solo una questione di aumenti delle bollette dell'acqua del 40% nel migliore dei casi, ma lede anzitutto la nostra umanità, dunque nei suoi bisogni fondamentali. So che l'aspetto etico poco potrebbe importare (per rispondere ai fautori della privatizzazione). Allora spostiamoci sull'aspetto economico.

- aspetto economico. Dare in mano ai privati o alle grandi multinazionali dell'acqua (le prime sono francesi) il 'mercato' dell'acqua in Italia è un grandissimo affare per queste holding. La bolletta non salirà, come afferma il "codacons", del 40%, bensì di più. Poichè il "privato" farà lavori di ristrutturazione della rete idrica, di miglioramento della raccolta alla fonte e dell'erogazione. Cosa che può benissimo fare anche il "pubblico". E il "privato" è una azienda che ha lo scopo di massimizzare i suoi profitti, minimizzando i costi. Lo scenario è facilmente ricostruibile: bollette elevate, sulle quali nessuna amministrazione comunale potrà dire "è troppo" (perchè la gestione dell'acqua non è più sua), per garantire alti profitti alla dirigenza e tagli di personale o comunque lavori di ristrutturazione (quelli di cui vi ho parlato prima) che avverrebbero sì, ma al minore dei costi... per cui non fatti bene come potrebbe farli il "pubblico". A fronte di quanto detto e delle poche, sinora, esperienze italiane di privatizzazione dell'acqua, l'aumento di solo il 40% è da ritenersi una chimera, poichè gli esempi italiani di Latina e Arezzo già fanno vedere aumenti a tre cifre.

- si ha perdita di democrazia. Vendendo il bisogno (è sempre bene ricordarlo), vendiamo noi stessi alle holding dell'acqua... il che significa anche una perdita di democrazia in Italia, giacchè il controllo decisionale sull'acqua non spetta più all'ente pubblico, ma alla holding, che sottrae quindi, qui possiamo dirlo (parlando di democrazia), diritti primari. Anche questo aspetto va considerato nel processo che ha voluto questo Governo.

- esiste una proposta di legge di iniziativa popolare sulla ripubblicizzazione dell'acqua in Parlamento, che lì giace, dopo lo sforzo di tanti (è bene dire che l'attuale opposizione in Italia, PD, UDC, Di Pietro non hanno fatto nulla per portare avanti questa legge e per il lavoro di raccolta firme), che ha permesso di arrivare a circa 400 mila firme raccolte. Con l'approvazione della privatizzazione dell'acqua, anche questa proposta di legge sarà da ritenere giacente in qualche scaffale. Però lo sforzo degli innumerevoli comitati spontanei, associazioni cattoliche e no, partiti di sinistra che si sono mossi per questa proposta di legge non è da cancellare. Con altrettanta forza mi auguro che questi gruppi e gruppuscoli si rimettano in moto per informare la gente di cosa sta accadendo intorno alla privatizzazione dell'acqua e, nelle modalità e tempi che si prospetteranno, attivarsi per arrivare ad un referendum abrogativo dell'attuale legge Ronchi sulla privatizzazione dell'acqua pubblica.

Ci sono anche altri aspetti, secondari, che non ho considerato. Sono sufficienti questi per comprendere e fare comprendere alla gente la gravità di ciò che è accaduto con la privatizzazione dell'acqua.

Forza e coraggio!!!
Stefano Ferrario


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giovedì 19 novembre 2009

Lella Costa porta le ragazze ad indagare il mito


di Isabella Rossi

“Orfeo si volta e fa l’unica cosa che non deve fare”. Di lei, invece, niente si sa. Forse è per questo che su Euridice si può proiettare tutto il femminile esistente e quello storicamente assente. La trovata è il filo conduttore di uno spettacolo frizzante e tragicomico che parla temerariamente di donne. Con “Ragazze” torna Lella Costa a Perugia ed entusiasma letteralmente, nelle due repliche di sabato 14 e domenica 15 novembre, il pubblico del teatro Morlacchi. E non solo quello femminile.

"Ed Ella, morendo per la seconda volta, non si lamentò; e di che cosa avrebbe infatti dovuto lagnarsi se non d'essere troppo amata? Porse al marito l'estremo addio, che Orfeo a stento riuscì ad afferrare, e ripiombò di nuovo nel luogo donde s'era mossa", racconta Ovidio nelle Metamorfosi (X, 61-63). Già dall’antichità, infatti, “il troppo amore non è motivo di vertenza”.

Ma di che morte morì la ninfa driade, immortale per sua stessa natura e incarnazione del rigoglio vegetativo? Forse una civile, quella inflittale per essersene andata sin giù all’inferno pur di scampare agli estenuanti diletti musicali di Orfeo. Sì, proprio l’Ade, come luogo eternamente silenzioso, avrebbe potuto farle da rifiugio. Da lì la visita di Orfeo: “Orfeo live in Ade, ovvero Orfeo Live Aid!”.

E’ piena di verve la lettura ermeneutica che la Costa offre del breve mito greco. Le fanno da sfondo due cerchi, uno obliquo sul piano, l’altro verticale, perfetto come superficie di proiezione per i volti eterni del femminile rinascimentale. Quello carico di forza e sensualità a lungo negate.

Come un tormentone ritorna la constatazione che sembrava un punto di partenza: “Orfeo si volta e fa l’unica cosa che non doveva fare: “O l’ha fatto apposta o è un idiota totale”. Trattasi forse di un delitto perfetto, il più celebrato uxoricidio della storia o dell’inizio di una svolta?

Rilke e Calvino con le loro interpretazioni del mito offrono all’autrice rivoluzionari spunti di riflessione. Una costante li unisce tutti. Che fine ha fatto quella divinità che ha sancito per secoli la sacralizzazione del femminile? La risposta sembra non farsi desiderare: è presente in frammenti di mito, si nasconde tra le pieghe della storia in attesa che qualcuno, con sano umorismo e profondo desiderio di riscatto, riesca a farla riemergere. Qualcuno come Lella, insomma.


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domenica 15 novembre 2009

Margaret Mazzantini a Perugia

Segnaliamo questa interessante iniziativa che si terrà il 27 novembre 2009, a Perugia presso la Sala dei Notati (ore 18.00). Margaret Mazzantini presenta il suo nuovo libro "Venuto al mondo". Modera Giovanna Zucconi, introduce Maurizio Oliviero. Ingresso libero.



La scheda del libro (dal sito www.bol.it)
Una mattina Gemma lascia a terra la sua vita ordinaria e sale su un aereo, trascinandosi dietro un figlio di oggi, Pietro, un ragazzo di sedici anni. Destinazione Sarajevo, città-confine tra Occidente e Oriente, ferita da un passato ancora vicino. Ad attenderla all'aeroporto, Gojko, poeta bosniaco, amico fratello, amore mancato, che ai tempi festosi delle Olimpiadi invernali del 1984 traghettò Gemma verso l'amore della sua vita, Diego, il fotografo di pozzanghere. Il romanzo racconta la storia di questo amore, una storia di ragazzi farneticanti che si rincontrano oggi, giovani sprovveduti, invecchiati in un dopoguerra recente. Una storia d'amore appassionata, imperfetta come gli amori veri. Ma anche la storia di una maternità cercata, negata, risarcita. Il cammino misterioso di una nascita che fa piazza pulita della scienza, della biologia, e si addentra nella placenta preistorica di una Guerra che mentre uccide procrea. In questo grande affresco di tenebra e luce, in questo romanzo intimo e sociale, le voci di quei ragazzi si accordano e si frantumano nel continuo rimando tra il ventre di Gemma e il ventre della città dilaniata. Ma l'avventura di Gemma e Diego è anche la storia di tutti noi, perché Margaret Mazzantini ha scritto un coraggioso romanzo contemporaneo. Di pace e di guerra. La pace è l'aridità fumosa di un Occidente flaccido di egoismi, perso nella salamoia del benessere. La guerra è quella di una donna che ingaggia contro la natura una battaglia estrema e oltraggiosa. L'assedio di Sarajevo diventa l'assedio di ogni personaggio di questa vicenda di non eroi scaraventati dal calcio della Storia in un destino che sembra in attesa di loro come un tiratore scelto. Il cammino intimo di un uomo e di una donna verso un figlio, il loro viaggio di iniziazione alla paternità e alla maternità diventa un travaglio epico, una favola dura come l'ingiustizia, luminosa come un miracolo. Dopo "Non ti muovere", con una scrittura che è cifra inconfondibile di identità letteraria, Margaret Mazzantini ci regala un romanzo-mondo, opera trascinante e di forte impegno etico, spiazzante come un thriller, emblematica come una parabola. Una catarsi che dimostra come attraverso tutto il male della Storia possa erompere lo stupore smagato, sereno, di un nuovo principio. Una specie di avvento che ha il volto mobile, le membra lunghe e ancora sgraziate, l'ombrosità e gli slanci di un figlio di oggi chiamato Pietro.


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martedì 10 novembre 2009

Lavorare stanca? (di Pablos Parigi)


Il titolo è naturalmente una citazione da Cesare Pavese, titolo di una delle sue più celebri opere poetiche, dalle cui parole ogni istante nella scrittura traggo ispirazione. La visione dei tasti del pianoforte che mi si gettano contro con violenza, tutti ed ottanta otto bianchi e neri, si è materializzata mentre camminavo in una faggeta ai 1380 m s.l.m. nel territorio ancora incontaminato, nel limite dell’umano controllo, della Comunanza Agraria di San Marco, sopra Norcia. Il mio corpo stanco si è sdraiato senza potermi opporre, sull’erba bagnata tra i pascoli in pieno giorno: quasi come un richiamo della Natura al mio corpo di fango, a rallentare il ritmo e sentire i battiti della terra… sentirli risuonare nelle orecchie, lentamente. Rialzatomi, ho scritto una riflessione. La stanchezza non è il lavorare in sè, che al contrario stimola, fortifica e veramente nobilita, ma la ricerca del lavoro nuovo, del nuovo orizzonte per avere da sperare. Così, districandosi tra labirinti di pensieri e di cattiverie insite negli atteggiamenti della mente umana, liberandosi faticosamente di parole non dette direttamente, ma sentite per voci traverse, insulti velati da mezzi sorrisi lasciati sospesi in un saluto sempre tirato, parto, riparto sicuro per un’avventura lavorativa per aver la possibilità di costruire e rafforzare i sogni che vivi ogni notte, che sostieni con il pensiero ed il cuore, e consolidi con azioni e con gesti ogni giorno. La forza determinata della voce dolce e soave di Colei che mi accoglie tra le sue braccia e mi ama con ferma decisione, mi aiuta a trovare il verso delle sensazioni ed a raccogliere i tasti bianchi e neri del mio pianoforte, rimontarli e poi suonarli, per evocare il potere della musica e l’atmosfera accogliente di un futuro diverso.

Nella mia stanza rifletto seduto,
lasciando i progetti sedimentare
Un fruscio dallo scrittoio par venuto
alzo gli occhi, nulla…ed un vociare

tenue rumorio, il tampone di velluto
dondola sullo scrittoio, dei fogli volare
e le penne colorate di netto decapitate
la libreria sorride, la vedo avanzare

articola suoni ed i libri scomposti muove
…dall’armadio di legno da sempre profumato
di resine rosate, essenze per natura oleose

una mano m’addita ferma, in uno Stato
confuso nella tempesta di tasti, ventose
arie soffiano sabbie sul selciato bagnato

lo sguardo appannato
il ferro rovente dal lavabo strilla in cirillico
ed il letto piange lacrime azzurre d’acrilica

vernice che s’espande…
tutte le pareti sono tornate bianche
le membra sono ancor più stanche.

a Marta


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mercoledì 4 novembre 2009

Nati nel posto giusto

Segnaliamo questa interessante iniziativa dell'associazione World Friends. Per maggiori informazioni, clicca su www.world-friends.org


Nati nel posto giusto
Un sms al 48586 per il Reparto Maternità del Neema Hospital di Nairobi

World Friends presenta “Nati nel posto giusto”, una campagna di raccolta fondi e sensibilizzazione a favore delle mamme e dei nascituri delle baraccopoli di Nairobi, Kenya. Dal 28 ottobre al 16 novembre sarà possibile contribuire alla campagna con un sms da 1 euro dai cellulari personali Tim, Vodafone, Wind e 3 o una telefonata da 2 euro da rete fissa Telecom Italia al numero 48586.
I fondi raccolti saranno interamente destinati alla costruzione del Reparto Maternità del Neema Hospital, il centro sanitario polivalente già realizzato da World Friends, che presta servizi sanitari ai pazienti più poveri delle baraccopoli, e che garantisce l’educazione sanitaria della popolazione, la formazione del personale medico e paramedico locale.
Il Reparto Maternità ha l’obiettivo di tutelare la salute delle mamme e dei nascituri della capitale keniana, con un’assistenza medica, sanitaria e diagnostica prima, durante e dopo il parto.

Aiuta i bambini di Nairobi a nascere nel posto giusto! Invia un sms al 48586

La testimonianza di Gianfranco Marino, fondatore di World Friends
Molte cose, nella nostra vita, capitano per caso e dato che a volte la sorte gioca brutti scherzi, ci piace poter programmare le nostre azioni, cercare di avere un controllo su ciò che ci succederà, per sentirci più sicuri.
Fortunatamente l’evento più dominato dal caso nella nostra vita è un lieto evento, un’occasione di fare festa: la nostra nascita! Certo è un grande evento: tutti i parenti ed amici che si stringono intorno al nuovo nato e alla neo-mamma… molte donne dicono che il giorno della nascita di un figlio sia il più felice della loro vita!

Ma è davvero così per tutti? Anche qui la sorte gioca la sua parte: quanto la nascita sia un lieto evento dipende dal luogo in cui un bambino viene al mondo.
Il tasso di mortalità materna è uno dei dati sanitari che mostra maggiormente la distanza tra ricchi e poveri, sia se si considerano i Paesi ricchi e i Paesi poveri, sia considerando le fasce più ricche e quelle più povere della popolazione di uno stesso Paese.
L’Africa sub-sahariana si distingue nel mondo per essere l’area geografica con il più alto tasso di mortalità materna, distanziando di gran lunga tutte le altre regioni; certo questo non può considerarsi un primato, ma il segnale di quanto lavoro sia necessario fare in questa zona nell’ambito della salute materna.

Purtroppo, nonostante il Quinto degli Obiettivi del Millennio, cioè degli obiettivi che le Nazioni Unite si sono proposte di raggiungere entro il 2015, sia quello di ridurre di tre quarti il tasso di mortalità materna e di garantire l’accesso universale alle cure necessarie per le madri, pochissimi progressi sono stati fatti in questo senso e addirittura si sono registrate alcune regressioni.
Questi dati, tradotti nella realtà quotidiana, stanno a significare che una donna che vive in uno slum di una metropoli come Nairobi, o una ragazzina (dato l’alto tasso di gravidanze in età adolescenziale), quando aspetta un bambino non può provare l’emozione di vederlo in un’ecografia, non può chiedere ad un medico di essere rassicurata sullo stato di salute proprio o del suo bambino oppure non può chiarire i suoi dubbi, e durante il parto non riceve nessuna assistenza da parte di personale qualificato.
Tutto ciò, unito all’aggravante delle drammatiche condizioni igienico-sanitarie di queste zone, spiega l’elevato tasso di mortalità materna. Questo naturalmente implica che i bambini, rimanendo senza cure materne, hanno maggiori rischi di non sopravvivere, in un contesto dove anche i tassi di mortalità infantile sono particolarmente elevati.

In Africa, a Nairobi, spesso la nascita di un bambino, più che essere un momento di gioia rappresenta per le donne un fattore di rischio, e questo dipende solo dal fatto che la futura madre, a causa della povertà, non può scegliere di partorire in un luogo adeguato.
Il desiderio del Neema Hospital di aprire un Reparto Maternità a cui possano accedere le donne delle baraccopoli è un modo per permettere a queste madri di far nascere il proprio bambino nel posto giusto per fare festa.

Gianfranco Morino e Sara Angela Beretta


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