martedì 31 marzo 2009

NUMEROSI A ROMA IL 4 APRILE 2009!

ROMA
4 aprile 2009
MANIFESTAZIONE NAZIONALE:
“CONTRASTARE LA CRISI, PROGETTARE IL FUTURO”

Il sindacato CGIL per aumentare il tetto di retribuzione mensile della cassa integrazione, per l’aumento delle pensioni, l’estensione della quattordicesima alle pensioni povere, la restituzione del fiscal-drag e la richiesta di detrazioni sul lavoro dipendente.
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lunedì 30 marzo 2009

Eroi moderni: Thomas Sankara

Tratto da www.missionaridafrica.org

La prima volta che ho sentito parlare di Thomas Sankara mi trovavo in visita ad una piccola scuola senegalese. Ero entrato in un aula affollatissima durante una lezione di storia. Sulla lavagna c’era scritto, a caratteri cubitali, “Président Thom Sankara”. «Questo è un nome che non dovete scordare – spiegava l’insegnante rivolto agli alunni – E’ il nome di un grande leader africano…

Salì al potere giovanissimo ma dimostrò di saper governare con saggezza, ispirato da nobili ideali: moralizzò la politica, aiutò i contadini, lottò contro la povertà. E lasciò un segno indelebile nell’animo di milioni di persone». L’insegnante parlava con enfasi mentre i ragazzi prendevano appunti. Nessuno osava fiatare: quella storia appassionava e incuriosiva… Ma soprattutto riempiva di orgoglio. Ne ho avuto conferma durante altri viaggi africani, ogni qual volta mi è capitato di sentire pronunciare il nome di Thomas Sankara: un nome importante, evocativo, capace di accendere ovunque il fuoco della passione.

Un eroe diverso
Thomas Sankara è stato l’eroe della rivoluzione popolare che nel 1983 cambiò i destini dell’Alto Volta, un povero paese saheliano, poi ribattezzato col nome di Burkina Faso (nella lingua locale significa “terra degli uomini liberi e integri”).

Giovane ufficiale dell’esercito, ambizioso e determinato, Sankara si impadronì del potere con un golpe. All’età di soli 34 anni si trovò a governare una nazione assediata dalla desertificazione e dalla carestia, che da decenni conviveva con colpi di stato, scioperi selvaggi e una miseria dilagante. In soli quattro anni di governo, Sankara riuscì a realizzare riforme sociali epocali e cambiò il volto del Paese.

Sankara era un idealista ma pure un uomo di azione, un insaziabile stacanovista. Si dedicava solo a programmi ambiziosi e intensivi: in meno di tre settimane, il suo Governo riuscì a far vaccinare contro il morbillo, la meningite e la febbre gialla il 60% dei bambini del paese (secondo l’Unicef fu una delle più belle imprese mai realizzate in Africa). In ogni villaggio Sankara fece costruire nuove scuole (in quattro anni la percentuale di bambini scolarizzati del Burkina salì di un terzo), ambulatori, piccoli dispensari e magazzini per i raccolti.

Molta gente si offriva volontaria per realizzare i programmi della rivoluzione, ma Sankara non esitava ad usare le maniere forti pur di centrare i suoi obiettivi: obbligò i capi-villaggio a seguire corsi di formazione per infermieri di primo soccorso. Impose una campagna di alfabetizzazione rapida nelle campagne (tutti, per 50 giorni consecutivi, furono costretti a frequentare la scuola) ed arrivò persino a promulgare l’obbligo di partecipare ad un’ora di ginnastica collettiva tutti i giovedì pomeriggio.

Senza peli sulla lingua
Sankara gestì il potere in modo decisamente poco convenzionale. Cercò di ridare vigore all’arretrata economia rurale, nella speranza di far raggiungere al Paese l’autosufficienza alimentare. Ma rifiutò polemicamente gli aiuti internazionali e le politiche di aggiustamento promosse dal Fondo monetario. «L’Africa si salverà da sola. Tutto ciò di cui abbiamo bisogno sta nella nostra terra e nelle nostre mani» usava ripetere nei suoi comizi.

Non contento, Sankara scosse le cancellerie occidentali facendosi promotore di una campagna contro il debito estero contratto dai paesi africani: «Dopo essere stati schiavi, siamo ora schiavi finanziari. Dobbiamo avere il coraggio di dire ai creditori: siete voi ad avere ancora dei debiti, tutto il sangue preso all’Africa».

A preoccupare le potenze occidentali erano anche le “amicizie” di Sankara: il presidente burkinabè frequentava “gente pericolosa” come Gheddafi, Fidel Castro, Menghistu e il mozambicano Samora Machel. La Francia, in particolare, temeva che il proselitismo di questo giovane rivoluzionario potesse contribuire all’erosione dell’influenza politica ed economica di Parigi in Africa.

Un presidente in bicicletta
La diplomazia e la realpolitik non erano il suo forte (il padre-fondatore della Costa d’Avorio, Houphouet-Boigny, lo chiamava scherzosamente «il figlio ribelle») ma, da umile e populista qual era, viveva per primo il modello di vita proposto alla sua gente. Occorreva che tutti facessero dei sacrifici e lui non si tirava indietro.

Rifiutava di vivere al di sopra delle possibilità della gente comune, per le vie della capitale Ouagadougou lo si vedeva spesso girare in bicicletta. Per abbattere i privilegi della classe dirigente fece vendere le auto blu ministeriali, sostituendole con semplici utilitarie (il presidente guidava personalmente una Renault 5).

Nel 1985 licenziò gran parte dei membri del suo gabinetto e li inviò a lavorare nelle cooperative agricole, nello stesso anno decise un taglio del 15% dei salari del governo. Impose una radicale politica di austerità a tutti i funzionari pubblici, compreso a se stesso.

La frattura col passato
In effetti la rivoluzione richiedeva sacrifici. Tutti erano coinvolti nei progetti contro la desertificazione: ogni straniero che arrivava in Burkina era obbligato a piantare un albero. Studenti, operai, ministri e persino diplomatici europei furono “inviati” (un termine eufemistico: il regime non sopportava i dissidenti) a dare una mano per la costruzione della ferrovia che avrebbe dovuto collegare la capitale Ouagadougou alla città di Tambao, dove si trovano ricchi giacimenti di manganese e di calcare (gli economisti avevano calcolato che il progetto non avrebbe mai potuto produrre reddito e ancora oggi i lavori non sono stati ultimati).

Sankara era anche questo. Non tutti lo prendevano sul serio, soprattutto all’estero, ritenendolo ingenuo e sognatore. Gli oppositori politici lo accusavano di autoritarismo e di demagogia. Ma il suo fascino era contagioso: soprattutto i giovani vedevano in lui un nuovo leader, non assetato di potere, saggio e idealista. Sul piano sociale e culturale Sankara creò una frattura netta col passato. Si oppose fermamente a quella sorta di feudalesimo rurale che permetteva ai capi-villaggio di sfruttare i contadini. Puntò con forza sull’emancipazione delle donne. Si occupò di moralizzare la vita pubblica e lottò attivamente contro la prostituzione e la corruzione.

A livello economico perseguì una politica protezionistica. Quando non indossava l’uniforme militare, Sankara vestiva il tipico abito verde della fabbrica di tessuti Faso dan Fani, fatto col cotone ruvido burkinabé (era l’uniforme imposta ai funzionari). Anche il pane veniva in parte fatto con la farina di miglio perché il mais costava troppo e doveva essere importato. Certo non fu facile, ma in quattro anni il presidente cambiò il volto del Paese. E il Burkina Faso divenne fiero della propria diversità.

Ucciso dagli “amici” più cari
Thomas Sankara venne assassinato nel 1987 durante un colpo di stato organizzato da alcuni ufficiali dell’esercito, tutti vecchi amici del presidente. La nuova giunta militare venne guidata dal capitano Blaise Compaoré (l’attuale presidente del Burkina Faso), un tempo compagno di lotta di Sankara, che cercò invano di screditare l’immagine dell’ex leader con un’intensa propaganda destinata solo a far rimpiangere il precedente regime. Sotto il governo di Sankara l’economia del Burkina ritrovò vigore, i conti pubblici vennero gestiti con oculatezza e la corruzione fu ridotta a livelli bassissimi (un caso quasi unico in Africa). Tutti i principali indici della qualità della vita - mortalità infantile, età media, scolarizzazione, ecc. - migliorarono. Ma soprattutto la popolazione burkinabé sviluppò un genuino senso di patriottismo che permise di superare le divisioni tribali e di guardare al futuro con rinnovato ottimismo .

Un’eredità ingombrante
A diciassette anni dalla sua morte, la figura di Thomas Sankara sopravvive nella memoria di milioni di africani: ogni 15 ottobre, nell’anniversario del colpo di stato che gli tolse il potere, una grande folla rende omaggio alla sua tomba a Ouagadougou. A tributargli gli onori non sono solo i nostalgici che hanno vissuto la sua rivoluzione, ma anche tanti giovani che lo hanno conosciuto coi racconti dei genitori e i libri di storia. A tutt’oggi rimangono numerosi interrogativi circa i motivi e i mandanti del suo omicidio.

Sankara si era procurato diversi nemici a cui dava molto fastidio. Pur godendo dell’appoggio delle masse, entrò sempre più in contrasto con alcuni gruppi di potere molto influenti fra cui i sindacati, i proprietari terrieri, i capi tradizionali.

Aspri dissidi si erano creati anche con alcuni paesi occidentali, specie gli Stati Uniti e la Francia, rispetto ai quali il Burkina Faso era stato per lungo tempo in una posizione di dipendenza economica e di sudditanza politica. Sankara era solo, troppo debole per avere la meglio su tutti. Ma l’immagine di questo giovane rivoluzionario che osò sfidare i grandi del mondo, e che seppe incarnare le speranze di liberazione di un intero continente, resta un esempio di integrità e di coraggio che riempie di orgoglio milioni di africani.

di Marco Trovato


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venerdì 27 marzo 2009

Irrisorie le pene e i maltrattatori tornano a colpire

Sensibilizzare e prevenire la violenza alle donne, che ha radici culturali in Umbria come in Italia, è importantissimo, ma del tutto insufficiente di fronte ad una scioccante realtà: i maltrattatori se la cavano con pene irrisorie e tornano a colpire.

Cosa vuol dire maltrattamento? L'articolo 572 del codice di procedura penale fa un riferimento, quanto meno vago a tale reato producendo di fatto una non definizione. Può signficare commettere atti di violenza fisica, morale, mentale, economica. Nella stragrande maggioranza dei casi, ha dichiarato Antonella Duchini, Sostituto Procuratore della Repubblica, Direzione Distrettuale Antimafia, "la donna è indotta a subire, sminuendo la violenza subita, per mancanza di indipendenza economica".

Al convegno tenutosi ieri per la presentazione di "Mai più violenze" il progetto regionale che ha ottenuto un finanziamento ministeriale piazzandosi al terzo posto su 17 partecipanti, queste parole sono cadute su un terreno fertile. Molte delle donne, provenienti da associazioni o organizzazioni informali, si scontrano quotidianamente con questa amara verità: la denuncia della violenza in famiglia è un atto di estremo coraggio per una donna, spesso compiuto quando è troppo tardi. Ma perchè è così difficile denunciare il maltrattante? Per far sì che la violenza domestica "sommersa" emerga è fondamentale capire i motivi di questa reticenza.

E proprio la prospettiva di un magistrato può dare notevole contributo alla comprensione del fenomeno. L’incertezza delle pene e la lunghezza dei tempi della giustizia a fronte di una convivenza forzata con il maltrattante possono essere, purtroppo, un valido motivo di reticenza a sporgere denuncia. I magistrati, d’altro canto, sono oberati di lavoro, ha spiegato il Sostituto Procuratore. 4000-5000 procedimenti all'anno gravano sulle loro spalle. E la precedenza va ai processi con detenuti e quelli che riguardano le grandi operazioni: droga, corruzione, tratta. E il maltrattamento in famiglia scivola giù in fondo alla lunga lista dei crimini, benché la sua diffusione ne giustificherebbe posizioni di grande rilievo. Poi c’è la questione delle pene irrisorie. Una pena di 6 mesi può significare una pena a 4 mesi, per patteggiamento o rito abbreviato. Sospensione condizionale, semilibertà, semidetenzione, affidamento ai servizi sociali per pene inferiori ai 4 anni ricorrono spesso in questi casi.

Di fatto il maltrattatore non teme l’azione giudiziaria ed è per questo che continua a delinquere. Per non parlare delle condanne ad un anno per stalking. Il persecutore con ogni probabilità non vedrà il cielo a strisce, ma sarà a piede libero in men che non si dica. Proprio per questo reato, a fronte dell’ insufficienza delle pene, c’è la difficoltà a produrre prove sufficienti. Stati d’ansia e paura generati nelle vittime non sono sempre oggettivamente ravvisabili. E sempre per quanto riguarda i maltrattamenti in famiglia, ricorda Antonella Duchini, fondamentali sono le intercettazioni ambientali. Affrontare il processo con la sola dichiarazione della donna, infatti, è molto rischioso. Occorrono testimonianze, referti medici, prove che rendano oggettivo ciò che si consuma nell’intimità delle quattro mura domestiche. E i maltrattatori sono come killer seriali, la loro è una violenza ciclica che aumenta ed esplode quando realizzano l’inadeguatezza dell’azione giudiziaria.

di Isabella Rossi

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"La prima forma di resistenza alla violenza sulle donne è l'indipendenza economica"

La Sala d’onore a Palazzo Donini di Perugia era affollatissima ieri mattina. In netta maggioranza le donne. Quelle impegnate nella quotidiana battaglia per il rispetto dei diritti civili di tutti, come ha sottolineato Maria Rita Lorenzetti, presidente della Regione Umbria.Non solo donne per le donne, dunque, ma donne per il sociale, spesso su base volontaria, provenienti da un numero cospicuo di associazioni e organizzazioni informali. Sono stati i numeri, che assomigliano ogni giorno di più ad un bollettino di guerra, a richiedere una maggiore concentrazione sul fenomeno della violenza domestica.

I numeri della violenza in Umbria
Secondo l’Istat (dati aggiornati al 2006) in Umbria il 28,6 per cento delle donne di età compresa tra i 16 e 70 anni ha subito nel corso della propria vita violenza fisica o sessuale. Tra il 2003 e il 2008 il servizio Telefono Donna del Centro Pari Opportunità della Regione ha accolto 1544 richieste di sostegno, di cui il 67,8 per cento legato a violenza e maltrattamento, sempre nello stesso periodo il Centro Pari Opportunità ha tenuto 2861 colloqui di accoglienza per l’uscita dalla violenza. L’analisi dei dati realizzata dal Centro per il periodo 2003-2007 ci dice che l’87,6 per cento delle violenze è avvenuto nell’ambito della famiglia.

Resistere, meglio ancora: "tigna!"
Cifre allarmanti che a volte generano scetticismo. Ma chi sta sul campo sa bene che si tratta solo della punta dell’iceberg. I numeri riguardanti le violenze non denunciate rappresentano ancora il dato più eclatante in Umbria e in Italia. Ora la parola d’ordine, ha sottolineato Maria Rita Lorenzetti, è solo una: “resistere”. Che si traduce ancora meglio con “tigna”, ha chiosato la presidente, termine dialettale che esprime al meglio il concetto di “resistenza attiva e combattiva”.

Mai più violenze, Mille Azioni e Interventi Per Impedire Ulteriori violenze
E le donne, dell’associazionismo umbro e delle organizzazioni informali, infatti, non si sono arrese. E’ anche grazie a loro che le istituzioni umbre hanno riconosciuto la grave rilevanza di tale fenomeno entro i confini regionali e deciso di rinforzare le barricate contro la violenza domestica. Con Mai più violenze, Mille Azioni e Interventi Per Impedire Ulteriori violenze, un progetto partito dalla Regione Umbria con l’appoggio di Damiano Stufara, assessore regionale alle Politiche Sociali, l’Umbria fa un primo concreto passo avanti nel contrasto a tale fenomeno. Il progetto regionale che ha guadagnato il terzo posto su 17 prevede un finanziamento complessivo di 232mila euro, di cui 150mila (quota massima finanziabile) provenienti dal Ministero e la restante parte dalla Regione, dalle Asl, dai Comuni e dalla Provincia di Perugia. Il suo aspetto più caratterizzante è l’obbiettivo di formare “una rete delle reti” fra soggetti istituzionali, associazionismo e organizzazioni informali per capitalizzare tutte le risorse in campo e aumentare la specializzazione degli operatori, in maggioranza operatrici.

Umbria, terrra di destinazione della tratta
“Mai più violenze” rappresenta un buon inizio, ma il resto del lavoro è ancora da fare. Antonella Duchini, Sostituto Procuratore della Repubblica Direzione Distrettuale Antimafia, è un osservatore “privilegiato” della realtà locale e ricorda che il territorio dell’Umbria è anche il luogo di destinazione finale della tratta di donne provenienti dall’ex blocco sovietico e dall’Africa. Qui ci sono organizzazioni che procurano ingressi e che “smistano” le schiave nei locali notturni. Tuttavia un comun denominatore fra quelle donne, spesso schiave per necessità di un lavoro, e le donne vittime di violenza domestica c’è. In entrambi i casi accettano violenza e coercizione come una prassi normale perché sono sottoposte ad una sudditanza economica.

Madri ed economicamente dipendenti le vittime più frequenti
Se la dipendenza economica in Italia è per una donna ancora motivo di rinuncia a far valere i propri diritti nel lavoro come in famiglia, l’essere madre è in assoluto la causa prima del protrarsi delle dinamiche che la vedono vittima di maltrattamenti domestici. La paura di vedersi sottrarre i propri figli è tale da costringere le donne a subire ad oltranza. E' per questo che “la prima forma di resistenza”, secondo Antonella Duchini, “è l’indipendenza economica. Occorre un posto dove le donne possano andarsene portando via i propri figli”. Al convegno sono interventute anche Beatrice Lilli, che ha letto un brano dal suo libro-testimonianza “Rose Rosse: 17 anni di violenza domestica” e Barbara Spinelli, autrice del libro “Femminicidio”.

di Isabella Rossi

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lunedì 23 marzo 2009

Amnesty International promuove a Perugia il dibattito sulla violenza alle donne

In piena tempesta di neve si è svolta venerdì scorso a Perugia, presso la chiesa della SS Annunziata, a piazza Mariotti, una serata evento dal titolo. “Libere dalla violenza - rompere il silenzio” organizzata dall’associazione Cris, Centro Ricerca Intervento Sociale, e dalla sezione di Perugia di Amnesty International in collaborazione con la Chiesa Valdese di Perugia, Rete Antiviolenza e Donne contro la Guerra.

Un programma ben articolato, fitto di interventi, proiezioni, testimonianze, momenti informativi e drammatizzazioni del fenomeno della violenza, in cui hanno trovato spazio anche le danze, che ha pienamente soddisfatto la presidente del Cris, Isabella Paoli. Presente anche Beatrice Lilli, il cui libro testimonianza “Rose rosse. 17 anni di violenza” verrà presentato prossimamente anche al convegno “Mai più violenze” che si terrà il 26 marzo a Palazzo Donini a Perugia.

Il fenomeno della violenza sulle donne in famiglia è radicato nella nostra cultura e in passato anche la Chiesa, bibbia alla mano, lo ha giustificato, ha dichiarato Kathrin Zanetti-Eberhart, pastora della Chiesa Evangelica Valdese di Perugia. “Ma il messaggio cristiano è d’amore e non della legge del più forte” ha sottolineato la pastora ricordando che la Chiesa Valdese ha diverse strutture in Italia che offrono ospitalità alle donne in fuga dalla violenza.

Toccante la testimonianza di una ragazza, letta da Simona Freddio, coordinatrice didattica del corso di laurea in Ostetricia all'Università di Perugia, vittima di uno stupro. Il brigadiere che raccolse la sua denuncia si accertò se al momento dello stupro indossasse pantaloni aderenti e se avesse piercing alla bocca. Non meno traumatizzante fu la visita in ospedale svolta in presenza di cinque persone che assistevano, senza il consenso della paziente, e che provocò alla ragazza ulteriori lacerazioni sulle ferite, morali e fisiche, inflittele dallo stupratore. “Che cosa c’è da piangere?” le chiese il solerte ginecologo introducendo lo speculum e aggiunse: “guarda che se hai provato piacere non può essere considerata violenza sessuale”. Sembra un horror e invece è tutto vero. La lettera firmata si conclude con una frase “non riuscirò mai a trasmettere tutto il dolore”.

Alla serata ha partecipato anche l’associazione Artemisia di Firenze con un referente della campagna del “Fiocco bianco. Uomini impegnati contro la violenza”. Molto critica la situazione in Afganistan, secondo i volontari di Amnesty, dove le donne che si battono vengono osteggiate e gli uomini che commettono crimini contro di loro raramente sono incriminati. Nel Sud Africa, al centro della grande epidemia di HIV, il 55% dei contagi riguarda le donne.

di Isabella Rossi

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sabato 21 marzo 2009

Giovani di Bastia per l'istruzione pubblica




Testo del video
I recenti provvedimenti presi dal governo Berlusconi sulla scuola e sull’università hanno dato vita ad un dibattito molto acceso sullo stato della formazione educativa in Italia. I pacchetti legge emanati dal Ministro Mariastella Gelmini hanno incontrato l’opposizione di ampi strati della società civile che hanno visto nella "riforma" un serio tentativo di smantellamento del sistema dell’ istruzione del nostro paese. La protesta ha avuto il suo picco nel periodo di ottobre-novembre con la grande manifestazione del 30 ottobre a Roma e con la nascita dei movimenti spontanei nelle università che hanno costituito il motore propulsore della cosiddetta “Onda Studentesca”. Tuttavia questa fase di protesta sembra oggi essersi notevolmente allentata, sebbene le decisioni prese dal governo continuino a creare molta preoccupazione per il futuro delle nuove generazioni.

È in questo contesto che alcuni giovani di Bastia (e dei comuni limitrofi) hanno deciso di mettere insieme le proprie forze per mantenere viva nel territorio l’attenzione sulle possibili conseguenze delle leggi Gelmini. Il progetto, portato avanti dalle locali sezioni giovanili del Partito Democratico, dell’Italia dei Valori e dei Giovani Comunisti Italiani e dal gruppo senza riferimenti politici Socialmente Giovani, ha visto la partecipazione di circa una ventina di ragazzi che, pur provenendo da orientamenti culturali diversi, hanno manifestato una comune contrarietà verso le decisioni del governo in materia di istruzione. Dopo un’iniziale fase di studio e di approfondimento personale, il gruppo ha dato vita ad una serie di iniziative nel comprensorio assisiate - bastiolo.

Nel mese di febbraio abbiamo organizzato, presso la Sala della Consulta del Comune di Bastia, l’ incontro-dibattito “Cambiare l’Università: ma come?”, con la partecipazione di rappresentanti dei docenti e degli studenti dell’Università di Perugia. Gli ospiti invitati, il prof. Roberto de Romanis della facoltà di lettere, il dottor Fabio Trippetta dell’Associazione Precari della Ricerca, Leonardo Esposito dell’ Associazione Studentesca Udu e Gionata Gatticchi dei Giovani Democratici, hanno fornito una serie di spunti di riflessione che sono stati poi ripresi nella vivace discussione tenutasi con il pubblico presente. Sono stati toccati molti dei punti di vertenzialità dell’Università italiana, dal problema storico del baronato, alla precarizzazione delle condizioni di lavoro dei ricercatori, al deterioramento dell’offerta didattica che viene presentata agli studenti. Condivisa dall’assemblea è stata la critica alla legge Gelmini e ai suoi aspetti più contestati, quali la possibilità di trasformare le Università in fondazioni di diritto privato, il blocco dei turnover per il personale docente o la controversa distinzione tra atenei virtuosi e non virtuosi.

Successivamente il nostro gruppo è stato invitato a partecipare alle assemblee degli studenti presso due istituti superiori di Assisi, il Liceo Classico Sesto Properzio e il Liceo Scientifico annesso al Convitto Nazionale Principe di Napoli. Nelle due assemblee, abbiamo illustrato ai giovani presenti in che modo si dovrebbe articolare la riforma, addentrandoci anche nella spiegazione dei meccanismi tecnici. Con loro abbiamo discusso e dibattuto alcuni dei punti di maggior rilievo della legge Gelmini sulla scuola dell’obbligo, dal taglio del personale scolastico, alla questione del maestro unico, all’innalzamento del numero medio degli studenti per classe fino alla ridefinizione dei curricula e del monte orario previsto per gli istituti superiori. Abbiamo poi spiegato le novità previste per l’Università, a cui la maggiorparte di loro accederà tra pochi anni. Su esplicita richiesta, abbiano infine parlato anche della mozione Cota, relativa alla creazione delle cosiddette “classi ponte” per gli studenti di origine straniera.

Questa serie di iniziative ha dimostrato che i giovani del territorio possono portare avanti interessanti progetti di natura sociale e culturale. Il nostro gruppo, che continuerà ad occuparsi dei problemi della scuola e della formazione, intende tuttavia allargare il raggio della propria azione proponendo iniziative anche su nuove tematiche. In questo contesto, è nostra intenzione coinvolgere nelle attività altri ragazzi della zona. La gioventù di oggi è spesso accusata di essere passiva e disinteressata verso le grandi questioni e le grandi sfide dei nostri giorni. Sta a noi giovani smentire chi ci vede così, è tempo però di reagire e di rimboccarci le maniche!

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venerdì 20 marzo 2009

Il Vicario e le ragioni del silenzio

Era il 20 febbraio del 1963 quando “Il Vicario” venne rappresentato per la prima volta al “Theater am Kurfürstendamm” di Berlino ovest. Il dramma di Ralf Hochhuth suscitò da subito un ampio dibattito nella Germania Federale per lo scottante tema trattato: “il silenzio” di Pio XII nei confronti dell’olocausto, lo sterminio da parte dei nazisti di 6 milioni di ebrei durante la seconda guerra mondiale. Da allora la fama dell’opera crebbe in tutta l’Europa. Ben 38 nazioni la portarono in scena. In Italia, al suo debutto nel 1965, il pezzo venne sottoposto a censura con l’irruzione in teatro della polizia.

Secondo Hanna Arendt, la stimata filosofa e storica tedesca di origini ebraiche, la domanda sul “perchè Papa Pio XII non avesse mai pubblicamente protestato contro la persecuzione e poi lo sterminio di massa degli ebrei” era legittima. Il Papa “conosceva le circostanze e nessuno, per quanto ne sappia, l’ha mai negato” scrisse nell’ottobre del 1963 in una lettera indirizzata alla scrittrice statunitense Mary McCarty.

Comprendere le ragioni del silenzio è il tentativo su cui si snoda tutta la trama del dramma di Hochhuth. Ma “il Vicario” non è un’opera anticlericale. Coscienza e calcolo politico, viltà e solidarietà verso i perseguitati non sono sottoposti ad un giudizio astrattamente laico bensì ad uno intimamente cristiano.

L’incontro tra l’ufficiale delle SS Kurt Gerstein (Matteo Caccia) e Padre Riccardo Fontana (Marco Foschi), il giovane sacerdote gesuita della segreteria di Stato vaticana, è un incontro fra due uomini mossi da una profonda fede nella giustizia divina, la stessa che li spingerà nella realizzazione di un piano eversivo. L’ufficiale tedesco “tradirà” nascondendo un ebreo nel suo alloggio, il gesuita offrendogli la sua tonaca e il suo passaporto. Entrambi individueranno nella “parola cristiana”, ad opera del Sommo Pontefice, l’unico mezzo per fermare la Shoa. La loro istanza sarà coperta dal silenzio ma nemmeno questo causerà la fine della fede.

Al cinismo del “medico” di Auschwitz (Cinzia Spanò), che non crede più in un Dio capace di amare il genere umano, Padre Fontana, tratte su di sé le estreme conseguenze del messaggio evangelico, opporrà la sua presenza “in vece del Vicario di Cristo”, là dove dolore e sofferenza maggiormente lo reclamano.

Dal riadattamento di Rosario Tedesco traspare la volontà di abbandonare in parte lo spirito documentaristico dell’opera originale. Errori e colpe sono consegnati alla storia. I tagli favoriscono un più incalzante ritmo narrativo e il crescendo di pathos rende trasparenti quelle ragioni del cuore, estranee ad ogni calcolo politico, ma capaci da sole di muovere Padre Riccardo al miracolo della carità cristiana.

La rappresentazione del celebre pezzo, dopo più di quaranta anni di silenzio, si deve all'iniziativa di un gruppo di giovani attori: Matteo Caccia, Marco Foschi, Annibale Pavone, Enrico Roccaforte, Cinzia Spanò e Rosario Tedesco che ha curato testo e regia. In Umbria lo spettacolo è approdato il 17 marzo a Palazzo Trinci di Foligno dove rimarrà fino al 19. Dal 20 al 22 marzo sarà al Teatro C del Videocentro di Terni e dal 24 marzo al 5 aprile al CUT, il Centro Universitario Teatrale di Perugia.

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giovedì 19 marzo 2009

Gasdotto Brindisi-Minerbio: strategie ed impatti

Segnaliamo questa iniziativa di dibattito pubblico (organizzata dal Comune di Gubbio) sul passaggio del metanodotto Brindisi-Minerbio nelle zone protette dell'Appennino Umbro-Marchigiano. A questo proposito, guarda anche il video che Socialmente Giovani ha realizzato sulla vertenza.

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mercoledì 18 marzo 2009

Eroi moderni: Don Peppino Diana

A quindici anni dal suo feroce sterminio, ricordiamo, tramite le parole di Roberto Saviano, la figura di Don Peppino Diana, assassinato a Casal di Principe per essersi schierato esplicitamente contro la Camorra.

La mattina del 19 marzo del 1994 don Peppino era nella chiesa di San Nicola, a Casal di Principe. Era il suo onomastico. Non si era ancora vestito con gli abiti talari, stava nella sala riunioni vicino allo studio. Entrarono in chiesa, senza far rimbombare i passi nella navata, non vedendo un uomo vestito da prete, titubarono. Chi è Don Peppino? Sono io...Poi gli puntarono la pistola semiautomatica in faccia. Cinque colpi: due lo colpirono al volto, gli altri bucarono la testa, il collo e la mano. Don Peppino Diana aveva 36 anni. Io ne avevo 15 e la morte di quel prete mi sembrava riguardare il mondo degli adulti. Mi ferì ma come qualcosa che con me non aveva relazione. Oggi mi ritrovo ad essere quasi un suo coetaneo. Per la prima volta vedo don Peppino come un uomo che aveva deciso di rimanere fermo dinanzi a quel che vedeva, che voleva resistere e opporsi, perché non sarebbe stato in grado di fare un'altra scelta.

Dopo la sua morte si tentò in ogni modo di infangarlo. Accuse inverosimili, risibili, per non farne un martire, non diffondere i suoi scritti, non mostrarlo come vittima della camorra ma come un soldato dei clan. Appena muori in terra di camorra, l'innocenza è un'ipotesi lontana, l'ultima possibile. Sei colpevole sino a prova contraria. Persino quando ti ammazzano, basta un sospetto, una voce diffamatoria, che le agenzie di stampa non battono neanche la notizia dell'esecuzione. Così distruggere l'immagine di don Peppino Diana è stata una strategia fondamentale. Don Diana era un camorrista titolò il Corriere di Caserta. Pochi giorni dopo un altro titolo diffamatorio: Don Diana a letto con due donne.

Il messaggio era chiaro: nessuno è veramente schierato contro il sistema. Chi lo fa ha sempre un interesse personale, una bega, una questione privata avvolta nello stesso lerciume. Don Peppino fu difeso da pochi cronisti coraggiosi, da Raffaele Sardo a Conchita Sannino, da Rosaria Capacchione, Gigi Di Fiore, Enzo Palmesano e pochi altri. Ricordarlo oggi - a 15 anni dalla morte - significa quindi aver sconfitto una coltre di persone e gruppi che pretendevano di avere il monopolio sulle informazioni di camorra, in modo da poterle controllare. Ricordarlo è la dimostrazione che anche questa terra può essere raccontata in modo diverso da come è successo per lungo tempo. Come dice Renato Natale, ex sindaco di Casal di Principe e amico di don Peppe, "è sempre complicato accettare l'eroismo di chi ci sta vicino, perché questo sottolineerebbe la nostra ignavia". Don Peppino fu ucciso nel momento in cui Francesco Schiavone Sandokan era latitante, mentre i grandi gruppi dei Casalesi erano in guerra e i grandi affari del cemento e dei rifiuti divenivano le nuove frontiere dei loro imperi. Don Peppino non voleva fare il prete che accompagna le bare dei ragazzi soldato massacrati dicendo "fatevi coraggio" alle madri in nero. A condannarlo fu ciò che aveva scritto e predicato. In chiesa, la domenica, tra le persone, in piazza, tra gli scout, durante i matrimoni. E soprattutto il documento scritto assieme ad altri sacerdoti: "Per amore del mio popolo non tacerò". Distribuì quel documento il giorno di Natale del 1991. Bisognava riformare le anime della terra in cui gli era toccato nascere, cercare di aprire una strada trasversale ai poteri, l'unica in grado di mettere in crisi l'autorità economica e criminale delle famiglie di camorra.

"Assistiamo impotenti al dolore di tante famiglie che vedono i loro figli finire miseramente vittime o mandanti delle organizzazioni della Camorra. - scriveva - La Camorra oggi è una forma di terrorismo che incute paura, impone con violenza, armi in pugno, regole inaccettabili: estorsioni; tangenti al venti per cento e oltre sui lavori edili, che scoraggerebbero l'imprenditore più temerario, traffici illeciti per l'acquisto e lo spaccio delle sostanze stupefacenti... ".

La cosa incredibile è che quel prete ucciso, malgrado tutto, continuò a far paura anche da morto. Le fazioni in lotta di Sandokan e di Nunzio di Falco cominciarono a rinfacciarsi reciprocamente la colpa del suo sangue, proponendo di testimoniare la loro estraneità a modo loro: impegnandosi a fare a pezzi i presunti esecutori della banda avversaria. Oltre a cercare di diffamare Don Peppino, dovevano cercare di lanciarsi dei messaggi scritti con la carne, per togliersi di dosso il peso dell'uccisione di quell'uomo. Così come era stato difficile trovare i killer disposti a farlo fuori. Uno si ritirò dicendo che a Casale lo conoscevano in troppi, un altro accettò ma a condizione partecipasse pure un suo amico, come un bambino che non ha il coraggio di fare da solo una bravata. Nel corso della notte prima dell'agguato, uno dei killer tormentati riuscì a convincere un altro a rimpiazzarlo, ma il sostituto, l'unico che non sembrava volersi tirare indietro, era l'esecutore meno adatto. Soffriva di epilessia e dopo aver sparato rischiava cadere a terra in convulsioni, crisi, bava alla bocca. Con questi uomini, con questi mezzi, con queste armi fu ucciso Don Peppino, un uomo che aveva lottato solo con la sua parola e che rivoluzionò il metodo della missione pastorale. Girava per il paese in jeans, non orecchiava le beghe delle famiglie, non disciplinava le scappatelle dei maschi né andava confortando donne tradite. Aveva compreso che non poteva che interessarsi delle dinamiche di potere. Non voleva solo confortare gli afflitti, ma soprattutto affliggere i confortati. Voleva fare chiarezza sulle parole, sui significati, sui perimetri dei valori.

Scrisse: "La camorra chiama "famiglia" un clan organizzato per scopi delittuosi, in cui è legge la fedeltà assoluta, è esclusa qualunque espressione di autonomia, è considerata tradimento, degno di morte, non solo la defezione, ma anche la conversione all'onestà; la camorra usa tutti i mezzi per estendere e consolidare tale tipo di "famiglia", strumentalizzando persino i sacramenti. Per il cristiano, formato alla scuola della Parola di Dio, per "famiglia" si intende soltanto un insieme di persone unite tra loro da una comunione di amore, in cui l'amore è servizio disinteressato e premuroso, in cui il servizio esalta chi lo offre e chi lo riceve. La camorra pretende di avere una sua religiosità, riuscendo, a volte, ad ingannare, oltre che i fedeli, anche sprovveduti o ingenui pastori di anime (...) Non permettere che la funzione di "padrino", nei sacramenti che lo richiedono, sia esercitata da persone di cui non sia notoria l'onestà della vita privata e pubblica e la maturità cristiana. Non ammettere ai sacramenti chiunque tenti di esercitare indebite pressioni in carenza della necessaria iniziazione sacramentale...".

Questo è il lascito di Don Peppino Diana, un lascito che ancora oggi resta difficile accogliere e onorare. La speranza è nelle nuove generazioni di figli di immigrati, e nuovi figli di questo meridione, persone che torneranno dalla diaspora dell'emigrazione, emorragia inarrestabile. Il pensiero e il ricordo di Don Peppino sarà per loro quello di un giovane uomo che ha voluto far bene le cose. E si è comportato semplicemente come chi non ha paura e dà battaglia con le armi di cui dispone, di cui possono disporre tutti. E riconosceranno quanto fosse davvero incredibilmente nuova e potente la volontà di porre la parola al centro di una lotta contro i meccanismi di potere. Parole davanti a betoniere e fucili. Realmente, non come metafore. Una parola che è sentinella, testimone, così vera e aderente e lucida che puoi cercare di eliminarla solo ammazzando. E che malgrado tutto è riuscita a sopravvivere. E io a Don Peppino vorrei dedicare quasi una preghiera, una preghiera laica rivolta a qualunque cosa aiuti me e altri a trovare la forza per andare avanti, per non tradire il suo esempio, offrendogli le parole di un rap napoletano. "Dio, non so bene se tu ci sei, né se mai mi aiuterai, so da quale parte stai".

Roberto Saviano

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L'Italia persa tra le bollicine

Dal sito web de l'Unità.

La crisi, certo. La recessione, la depressione, il taglio del superfluo. Ma c’è almeno un settore che non decresce e anzi va a gonfie vele. È il comparto dell’acqua. Che sia effervescente o naturale, ricca di sodio o con poco magnesio, oligominerale o mineralizzata attraverso brocche o sistemi per potabilizzare quella casalinga, il «prodotto» continua a funzionare. C’è, anzitutto, che gli italiani poco si fidano di quanto arriva dal rubinetto. Temono l’eccesso di calcare, l’inquinamento delle falde acquifere, o semplicemente non ne amano il sapore. Ma c’è anche una condizione psicologica, non trascurabile. Da una parte l’idea che alcune acque in bottiglia possiedano proprietà benefiche acclarate. Dall’altra la sensazione che, anche in tempi di crisi, quello dell’acqua confezionata sia un acquisto plausibile, che non incida oltremodo sul budget familiare ma «faccia bene».

Lo commenta anche il responsabile marketing della San Benedetto che intervistiamo in uno degli articoli collegati e che spiega questa passione molto italiana come «un fatto culturale». L’acqua viene considerata a tutti gli effetti un genere alimentare, al pari di pasta o olio. Quindi deve essere di buona qualità. Per risparmiare, poi, ci sono mille sistemi. Dall’approvigionamento direttamente alla fonte ai filtri per pulire l’acqua di casa da qualunque residuo. Sia come sia, non si tratta di un consumo superfluo.

C’è poi una vaga connotazione psicologica: le bollicine «mettono allegria». Proprio così, testuale. Un po’ come succedeva con l’Idrolitina o le altre polverine «magiche» che riempivano le caraffe dell’Italia anni Sessanta. Era bicarbonato di sodio mescolato all’acido malico e tartarico, ma quello della bustina da versare nella bottiglia con tappo ermetico era un rituale gettonatissimo. «Come acqua sorgiva direttamente a casa tua», diceva la pubblicità. Che a tutt’oggi fa massicciamente il suo dovere, imponendo stili di vita, reclutando star di ogni genere per promuovere acque che fanno digerire, che aiutano a dimagrire e a depurarsi. Il concetto «acqua uguale pulizia» è il più semplice da far passare, ma di grandissimo impatto. E funziona. Gli ultimi dati parlano chiaro. Un dossier presentato ieri da Legambiente e Altraeconomia dice che nel 2007 abbiamo consumato la bellezza di 12,4 miliardi di acqua confezionata e che siamo disposti a pagarla mille volte di più di quella che esce dal rubinetto di casa (in media 0,5 millesimi di euro al litro contro i 30/50 centesimi di euro al litro per quella in bottiglia).

Con 196 litri pro capite all’anno, siamo il Paese d’Europa che ne consuma di più. Il terzo al mondo dopo gli Emirati Arabi e il Messico. Un volume d’affari per le aziende del comparto - 192 fonti e 321 marche - che supera i 2,25 miliardi di euro. Le uniche a rimetterci sono Regioni e Province che per i canoni di concessione delle multinazionali dell’acqua prendono cifre irrisorie, regolate in alcuni casi da un Regio decreto del 1927. Funziona così: ci sono regioni, tipo la Puglia, dove ogni ettaro di concessione costa un euro, indipendentemente dal numero di litri imbottigliati. In Veneto, al contrario, tre euro. In Abruzzo la tariffazione è forfettaria, a Bolzano si paga un canone annuo. Una sperequazione.

Legambiente chiede una legge ma soprattutto continua ad invitare gli italiani a usare l’acqua del rubinetto. «Che è di ottima qualità», ribadiscono. E non produce inquinamento né tonnellate di plastica. Un dibattito molto nostrano. A Istanbul il forum internazionale dell’acqua ci consegna dati drammatici: un miliardo di persone nel mondo non dispone di acqua potabile e muore di sete. In Nord Africa e Medio Oriente, a due passi da noi che sguazziamo nelle bollicine.

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martedì 17 marzo 2009

Gruppi di acquisto solidale: si può fare

Come gentilmente richiesto, segnaliamo quest'iniziativa dell'UVISP sul consumo critico. Bastia Umbra, giovedì 26 marzo, ore 20:45.


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domenica 15 marzo 2009

La cultura ai tempi della crisi

L’idea era intrigante: Istanbul, Parigi e Praga percorse, in un viaggio immaginario, attraverso le pagine di grandi scrittori. La sua realizzazione ha superato ogni più rosea previsione. Per quasi due ore il pubblico del Teatro Morlacchi, che ieri sera ha ospitato l’evento voluto dall’Assessorato alla Cultura del Comune di Perugia e da Luca Beatrice, critico d’arte e curatore del progetto “Infinita città”, si è fatto letteralmente trasportare via dalla letteratura ispirata alle tre capitali europee. Un sabato sera dedicato al “religioso” ascolto di Elisf Shafak, Orhan Pamuk, Eric-Samuel Schmitt, Sebnem Isiguzel, Louis-Sébastian Mercier, Bohumil Hrabal, Vladimir Karbusicky, Angelo Maria Ribellino e Raymond Queneau letti dalla bravissima interprete Corinna Lo Castro e da Piero Dorfles e Neri Marcorè, il critico letterario e l’attore-imitatore, già collaudata coppia televisiva del fortunato programma di Rai Tre “Per un pugno di libri”, quest’anno alla sua dodicesima edizione. Teatri deserti e libri invenduti? Il popolo perugino ieri sera non sembrava affatto confermare il trend nazionale. La ricerca di belle atmosfere ha provocato, ancora una volta, come già avvenuto per altri eventi organizzati dall’Assessorato alla Cultura, una mobilitazione di massa, solo parzialmente soddisfatta dalla capienza del teatro. Tutto merito della magica formula ad “ingresso gratuito”? Poco plausibile viste le faticose file ai botteghini del teatro per accaparrarsi l’agognato posto e le proteste dei numerosi cittadini rimasti sprovvisti di biglietto. La sete di cultura ai tempi della crisi economica rende ogni taglio una dolorosa ferita inferta al tessuto sociale cittadino. Proprio a quello che, a prescindere dall’anagrafe, si dimostra più vitale nell’accusare, ad esempio, insofferenza per il brutale impoverimento dei contenuti della tivù di Stato e che vorrebbe trovare una via di uscita a tale miseria nella programmazione culturale del proprio Comune.

di Isabella Rossi

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sabato 14 marzo 2009

Roberto Ridolfi sull'Università

Riportiamo una riflessione del giornalista de "La Voce" Roberto Ridolfi, che in una lettera aperta alla nostra aggregazione, fornisce delle interessanti considerazioni sullo stato attuale dell'Università italiana, con particolare riferimento al deterioramento della qualità didattica avvenuto negli ultimi anni.

Avrei dovuto partecipare all’incontro-dibattito pubblico “Cambiare l’Università: ma come?”, ragioni collegate ad esigenze personali di razionalizzazione ed ottimizzazione della mia crescente attività intellettuale, unita all’umana impossibilità di far fronte a troppi impegni, mi hanno consigliato di riposare. Tuttavia il tema mi tocca profondamente come laureato, come ex-universitario, come zio di nipoti studenti universitari, come semplice cittadino. Una riflessione sul tema s’impone a tutti.

Una premessa è d’obbligo: se vogliamo cambiare dobbiamo avere esatta cognizione dello stato dell’arte degli studi di alta cultura, perché così deve essere intesa l’Università, un luogo deputato alla elaborazione di contenuti culturali di livello superiore.Ci si interroga in sostanza sulla malintesa nozione di quanto ho affermato. Perché mi chiedo interrogarsi sulla riforma di quanto è stato già ampiamente, e con i risultati che sono sotto gli occhi di tutti, riformato? Personalmente ho da offrire una lunga serie di risposte, ma darle senza aver chiarito il mio approccio al problema sarebbe fuorviante. Torniamo pertanto al metodo, questo è l’unico modo per avvicinarsi alla realtà senza sterili semplificazioni.

L’Università attualmente è un bene di largo consumo alla portata di tutti, ma al servizio esclusivo di una lobby, quella dei docenti e dei ricercatori dai primi cooptati nel sistema con speciosi e dubbi concorsi in cui conta di più la fedeltà al pensiero dell’ illustre luminare che ti esamina che la propria effettiva capacità di produrre una cultura originale, foriera di applicazioni economiche e professionali in senso lato che dovrebbero costituire la ricchezza dell’Università e della nazione o sistema-paese come preferisce dire certa parte politica.

Quanto agli studenti dico solo che sono le vittime di questo sistema funzionale solo ai docenti, che si danno poco e male. La qualità dell’insegnamento e la sua quantità è miserrima. I tre anni che conducono alla laurea di primo livello sono per contenuti e preparazione offerta paragonabili a quello che negli anni ’70 si studiavano al Liceo. La liceizzazione degli studi universitari costituisce svilimento della natura che gli stessi dovrebbero avere : fondare criticamente i contenuti culturali ad un livello di approfondimento rilevante e comunque non palesemente ricognitivo di studi altrui, spesso degli stessi docenti che lucrano sotto la giustificazione della acuta riflessione scientifica. Spesso i loro testi non sono che mero ossequio o a studi condotti a fini personali, o per inserirli in un dibattito accademico la cui pochezza intellettuale è riflessa dalla scarsa eco che hanno a livello nazionale ed internazionale. Questi sono infatti gli orizzonti cui dovrebbero guardare gli studenti ed i pochi che lo fanno non seguono il magistero della propria facoltà, ma altre e più veloci fonti di acculturazione che esistono non per volontà dei docenti ma per un fenomeno indipendente che va sotto il nome di globalizzazione delle conoscenze tramite la comunicazione multi-mediale. Nessun merito hanno i docenti se a volte si imbattono in studenti svegli e preparati: la società li fa tali loro malgrado. Questa Laurea triennale è un pezzo di carta da inserire nel curriculum, non ha nessun’altro valore.

Il filosofo Maurizio Ferraris ritiene responsabili di questa situazione i docenti di sinistra. Acutamente non svolge solo una funzione critica, il mio ed il suo Je accuse alla cultura istituzionale di sinistra consiglia alcuni inderogabili contromisure:

• Abolire il valore legale del titolo di studio
• Concorsi annuali per docenti con domande che prevedano requisiti d’ammissione chiari e non palesemente ad hoc per favorire solo certi insegnanti.
• I ricercatori facciano solo ricerca
• Introduzione della contrattazione individuale tra docente ed Università
• Penalizzare i docenti che non pubblicano

Si ricordi inoltre che il Mit, vero brain-trust dell’economia e delle istituzioni statunitensi, ha 635 ordinari e 166 ricercatori: primaria è la funzione didattica o formativa come preferisce la sinistra. Occorre fondamentalmente ridare respiro alla nostra cultura, ricordando agli studenti che la vita è sogno ( Pedro Calderòn de la Barca,titolo di un dramma) ed i sogni vanno realizzati da svegli.

Roberto Ridolfi

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venerdì 13 marzo 2009

Vauro a Foligno

Il distretto scolastico n.7 di Foligno (Progetto lettura), in collaborazione con Emergency, la Casa dei Popoli e l'associazione Sovversione Non Sospette, organizza un incontro con il celebre vignettista Sauro Venesi che presenterà il suo libro Kualid che non riusciva a sognare (ed.Piemme). Lunedì 16 Marzo 2008, ore 16:30, Auditorium S. Domenico Sala video, Foligno. Conduce l’incontro il Dott. Franco Passalacqua (volontario Emergency)



Kualid vive con sua madre e suo nonno nella periferia di una Kabul dominata dai talebani e devastata dalle guerre. Ha dodici anni, lo sguardo sveglio e due incisivi un po' sporgenti che hanno consentito a suo cugino Said di affibbiargli il soprannome di "sorcio". Si guadagna la vita riempiendo con la pala le buche disseminate sulle strade che portano alla città, sperando in una moneta di ricompensa dai camion di passaggio. Ha fantasia Kualid, la fantasia di tutti i bambini, o almeno quella consentita a un bambino cresciuto in una zona di guerra. Conosce Asmar, il serpente di luce che, proiettato dal becco ricurvo di una teiera, lo viene a trovare in ogni notte di luna piena... Ma ha un cruccio: non riesce, proprio non riesce a sognare. O meglio, ci riesce a volte di giorno, quando è sveglio, ma quelli tutt'al più sono desideri, gli ha detto suo cugino Said, che anche per questo lo prende un po' in giro. È di notte che non riesce a sognare, Kualid. Non ci è riuscito nemmeno quando ha rubato i nastri delle videocassette che i talebani avevano legato a una mitragliatrice come trofeo, per ricordare a tutti che musica e immagini sono proibite. Proibite come gli aquiloni, e come tante altre cose a Kabul. Quella notte stessa Kualid si era messo quei nastri sotto il cuscino, perché così forse quei suoni e quelle immagini gli sarebbero entrati nella testa, e allora sì che avrebbe sognato. E invece niente. Solo qualche fruscio che aveva fatto ben sperare, e poi nulla. Sarà l'incontro-scontro con Samir, il calligrafo che collabora con gli occidentali che hanno aperto un ospedale in città, a fargli conoscere il mondo dei disegni e dei colori.

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domenica 1 marzo 2009

Festival Internazionale del Giornalismo


Segnaliamo questa importante manifestazione che si terrà a Perugia dal 1 al 5 aprile e che vedrà la partecipazione di famosi giornalisti a livello nazionale ed internazionale (tra gli ospiti, Seymour Hersh, Michele Serra, Gian Antonio Stella, Marco Travaglio, Vittorio Zucconi...). Per maggiori informazioni e per il programma dettagliato, vai su www.festivaldelgiornalismo.com.

Tra le numerose iniziative che si terranno all'interno del festival, ricordiamo in particolare la conferenza "Giornalismo missionario: l’informazione dal sud del mondo, oltre ai grandi media" con la partecipazione di Emil Blaser (Radio Veritas, Johannesburg), di Giuseppe Caramazza (Missionary International Service News Agency), di Bernardo Cervellera (Pontificio Istituto Missioni Estere e fondatore di AsiaNews) e di Renato Kizito Sesana (Fondatore del movimento Koinonia, presente in vari paesi africani, e di New People Media Centre di Nairobi). Modera Stefano Femminis, direttore della rivista Popoli.

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Viaggio nella creazione di un’opera

Design anni ’70, cucina economica e un soggiorno capiente per accogliere nove personaggi insieme al loro autore, Ezio. Alessandro Genovesi, attore milanese, porta in Umbria il suo “Happy Family”, lo spettacolo che ha sancito il suo esordio come drammaturgo e che ha ottenuto nel 2005 il Premio speciale Riccione per il Teatro.

I personaggi che convivono con il loro autore, consigliandolo, criticandolo e addirittura contestandogli la trama, per poi assumere coralmente le funzioni di una coscienza, scaturiscono dai bisogni e dalle paure della sua anima inquieta. Il cane francese è un uomo tenuto per mano, e mai volgarmente al guinzaglio, le donne finiscono quasi tutte per chiamarsi Anna e l’intreccio della storia, che avviluppa il giovane scrittore fruitore di una rendita derivante da un brevetto del padre, sembra sottrarlo alla sua irrisolutezza e ad un latente senso di solitudine.

Come una medicina contro l’alienazione metropolitana un incidente in bici, avvenuto dopo il “trattamento solitario” della massaggiatrice cinese, crea il presupposto per far entrare nella vita di Ezio personalità un po’ nevrotiche, a volte balorde, altre fiabesche ma indubbiamente calde e rassicuranti.

Sono caratterizzate da dialoghi veloci e “fuori dai denti”, monologhi brevi e un linguaggio semplice e autentico in cui si ritrovano non solo un paio generazioni ma tutto un popolo televisivamente accomunato nel racconto della quotidianità. Una nettamente superata, quasi surclassata dall’autore in compagnia dei suoi personaggi e che si tinge a tratti di un romanticismo dai toni zuccherini. Niente di strano, dato che è quello tipico dei sogni, la cui materializzazione Ezio alla fine confessa essere solo frutto della sua fantasia.

A quel punto l’autore rivela al pubblico il suo potere unico e assoluto nell’atto artistico per eccellenza: la creazione di un’opera. E’ per questo che i personaggi, d’improvviso, appaiono come marionette. Erano semplicemente sue creature. Qualcuno avrebbe mai potuto asserire il contrario? Forse no, forse sì. Ciò non toglie leggerezza e profondità ad uno spettacolo ricco di talento e belle promesse.
Isabella Rossi

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