venerdì 31 ottobre 2008

From Frisco: Italiani brava gente??

Se si fa un giro per i quattro isolati di North Beach, quartiere italiano nel cuore di San Francisco, si sentono nell’aria gli odori tipici delle trattorie e delle pasticcerie della penisola. Una Little Italy che si snoda lungo Columbus Avenue, affollata di ristoranti e caffé italiani.
Non è facile quantificare il numero di residenti della zona, molti vivono qua ormai da quaranta anni e non hanno mai richiesto la cittadinanza statunitense, “perché sono orgoglioso di essere italiano” dice Maurizio, pensionato romano, a Frisco da trentotto anni.
In città ogni quartiere è un mondo a sé: si va dalla zona sudamericana di Mission ai mercatini di Chinatown fino ai grattacieli di Finantial District e alle residenze vittoriane di Nob Hill. Ciò che li accomuna è il forte interesse che si respira per le imminenti elezioni presidenziali.
A dominare è lo slogan “Yes, we can!” e i banchetti che distribuiscono adesivi e spille con il volto sorridente di Obama. Dai balconi di molte abitazioni e sulle vetrine dei negozi appaiono continuamente manifesti blu del Partito Democratico, mentre per le strade è facile incontrare persone di ogni età con su la maglietta di Barack.
A North Beach questo non accade. Non si incontrano né manifesti né banchetti e la gente non sembra affatto interessata a quanto accadrà il prossimo 4 novembre. Molti italiani, cittadini americani, non si sono iscritti alle liste elettorali e non mostrano l’intenzione di farlo nei giorni seguenti, nella convinzione che per loro nulla cambierà, qualsiasi sia il risultato finale.
Nonostante gli anni trascorsi lontano dal Bel Paese, è ancora sedimentata l’idea che l’esercizio del voto non serva poi a molto: “Non saprei chi scegliere, per me sono tutti e due la stessa cosa”, spiega Massimo, da una panchina di Washington Square, sostenuto nella sua opinione dagli amici, sicuri che nemmeno il 30 % degli italiani aventi diritto si recherà alle urne la settimana prossima.
Gli altri, la minoranza di coloro che invece alle urne ci andranno, si dividono a metà. Da una parte, i residenti italiani più anziani ed i proprietari dei ristoranti appoggeranno il candidato McCain, convinti di difendere meglio il loro business.
Dall’altra, i giovani italiani nati a San Francisco o residenti in città fin da piccoli e i lavoratori dipendenti vedono in Obama una possibilità di cambiamento per la cosiddetta middle class: “Il ceto medio va difeso, soprattutto dopo una crisi economica di queste dimensioni” dice Francesco, cameriere al Mona Lisa Restaurant, “ed è questo che farà vincere Obama. L’America è pronta ad eleggere un presidente di colore…o almeno l’America delle grandi città, come New York, Chicago o San Francisco. Per gli italiani è diverso, sembrano spaccati a metà, un po’ come è accaduto nel 2006 tra Berlusconi e Prodi…e dai discorsi che sento qua dentro voteranno in pochi”.
Dello stesso avviso sono anche alcuni avventori del ristorante, convinti che la recente crisi finanziaria affosserà McCain: “Qua ormai è percepito come il successore di Bush e non verrà certo aiutato da questo…l’unica speranza che ha di raccogliere qualche voto in più, tra gli italiani, è solo grazie alla Palin…avete presente? Contraria ai matrimoni gay ecc”, continua Maurizio.
Molti di loro rimpiangono “il miglior presidente degli Stati Uniti degli ultimi decenni”, Bill Clinton, e avrebbero preferito vedere Hillary battersi contro i Repubblicani.
L’avversione per il presidente uscente è palpabile, sono numerosi coloro che giudicano Bush un presidente incapace e intento solo a salvaguardare i propri interessi. E la critica ricade sul suo compagno di partito, considerato altrettanto inesperto in materia economica: “All’America serve un presidente che si intenda di economia, perché quello è il problema centrale. Uno come Clinton. Quando c’era lui, l’economia volava e la middle class non si lamentava. Anche Obama non è che sia poi così preparato, ma tanto nessuno può fare peggio di Bush!” spiega Gianfranco, negli States da oltre trent’anni.
La situazione appare traballante, nei quattro isolati di North Beach: un testa a testa tra i due candidati e uno scarso interesse per il risultato finale. Insieme ad una convinzione, radicata tra i più anziani: gli Stati Uniti non sono affatto pronti ad un presidente afro-americano e i sondaggi degli ultimi giorni non tengono conto del razzismo latente nelle piccole città, lontano dalle coste e dalla mentalità europea delle metropoli dell’East e dell’West.
Diverse le voci dei giovani italiani di San Francisco: Barack Obama ce la farà perché avrà il sostegno delle classi più deboli della società americana e di quella middle class che sembra sprofondare nello stesso disagio: “Io andrò a votare perché il mio voto lo aspetta il mondo intero…e voterò Obama perché, lo so, sarà davvero in grado di cambiare questo paese” e Max, ventitrè anni, sorride, sicuro della vittoria.

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Mary Star, non toccare la nostra scuola!




Sciopero generale della scuola, 30 Ottobre 2008

Intro del video
Roma, 30 Ottobre 2008. Ottocentomila persone scendono in piazza per protestare contro il decreto Gelmini, approvato al Senato il giorno precedente. Insegnanti, studenti, collaboratori ATA, genitori ma anche semplici cittadini sono in subbuglio per quello che considerano un vero e proprio attentato al sistema dell'istruzione del nostro paese. Nel partecipare a questa manifestazione - in veste di professore precario molto molto arrabbiato - ne approfitto per dare voce con la mia videocamera alle mille anime di una piazza molto eterogenea e variegata, ma ben decisa a difendere strenuamente la scuola pubblica da chi vorrebbe invece farla a pezzi. Ringrazio tutti coloro che si sono prestati a lasciare nel video un proprio contributo, nella speranza che le nostre ragioni possano finalmente essere ascoltate e che si inverta quel processo distruttivo ormai in corso da anni che sta portando al completo smantellamento della scuola pubblica italiana.

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martedì 28 ottobre 2008

PABLO NERUDA -Lentamente muore-

Lentamente muore
chi diventa schiavo dell’abitudine,
ripetendo ogni giorno gli stessi percorsi,
chi non cambia la marcia,
chi non rischia e cambia colore dei vestiti,
chi non parla a chi non conosce.
Muore lentamente chi evita una passione,
chi preferisce il nero su bianco
e i puntini sulle “i”
piuttosto che un insieme di emozioni,
proprio quelle
che fanno brillare gli occhi,
quelle che fanno
di uno sbadiglio un sorriso,
quelle che fanno battere il cuore
davanti all’errore e ai sentimenti.
Lentamente muore
chi non capovolge il tavolo,
chi e’ infelice sul lavoro,
chi non rischia la certezza
per l’incertezza per inseguire un sogno,
chi non si permette
almeno una volta nella vita
di fuggire ai consigli sensati.
Lentamente muore chi non viaggia,
chi non legge,
chi non ascolta musica,
chi non trova grazia in se stesso.
Muore lentamente
chi distrugge l’amor proprio,
chi non si lascia aiutare;
chi passa i giorni a lamentarsi
della propria sfortuna o
della pioggia incessante.
Lentamente muore
chi abbandona un progetto
prima di iniziarlo,
chi non fa domande
sugli argomenti che non conosce,
chi non risponde
quando gli chiedono
qualcosa che conosce.
Evitiamo la morte a piccole dosi,
ricordando sempre che essere vivo
richiede uno sforzo
di gran lunga maggiore
del semplice fatto di respirare.
Soltanto l’ardente pazienza porterà
al raggiungimento
di una splendida felicita’.

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venerdì 24 ottobre 2008

Linux Day 2008

Da secoli ripeto a me stesso che devo passare a Linux, liberandomi dal "giogo schiavistico" di Windows e di Bill Gates. Lo dico, lo dico, non lo faccio mai, ma prima o poi lo farò! Nel frattempo, vi segnalo il Linux Day 2008, manifestazione che si tiene ogni anno a Perugia (nonchè nelle principali città italiane) per promuovere l'uso del sistema operativo libero. Sabato 25 Ottobre, Dipartimenti di Fisica e di Matematica/Informatica. Per maggiori informazioni, www.perugiagnulug.org .


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giovedì 23 ottobre 2008

Immigrato: condizione sociale o stato mentale della persona?

Pubblico questa bella riflessione del mio amico Roberto Ridolfi. Roberto è un operatore dell'UVISP, associazione che opera quotidianamente con gli immigrati della zona di Bastia.

15 Ottobre 2008

Immigrato. Una condizione particolare in cui parte dell’umanità viene a trovarsi o piuttosto un normale stato mentale che viviamo continuamente ogni giorno senza quasi ravvisarlo coscientemente? Si pensi alle centinaia di mutamenti di pensiero, di modus vivendi, di condizione sociale, cui noi ogni giorno cittadini di una nazione, per altro anch’essa in continuo e rapido mutamento, viviamo con naturalezza senza porci problemi sul nostro statuto personale di esseri umani titolari di diritti e doveri. Questo dovremmo pensare quando erigiamo una barriera, una separazione, una semplice differenza tra “i cittadini” e gli immigrati. È normale che un Romeno o un Albanese o un Nigeriano abbiano differenti modi di affrontare la realtà, troppo forti sono i condizionamenti culturali originari, ma questi rappresentano per noi un’ irrinunciabile ricchezza sotto il profilo umano, lavorativo, politico e finanche etico. Se poi ci richiamiamo alle nostre comuni radici cattoliche, non possiamo dimenticare il tratto fondamentale di noi cristiani: l’annuncio della salvezza è universale o non è. Ciò si legge chiaramente nei Vangeli ed è così palesemente vero e condiviso da non dover suscitare nessun argomento di discussione. Quello che invece va divulgato come norma etica primaria impostaci tanto dal rispetto dei diritti dell’uomo, quanto dai nostri obblighi di fratelli in Cristo, è il dovere dell’accoglienza intesa non come mera concessione, ma - e torno a ripetere un concetto fondamentale - di condivisione di quanto abbiamo con tutti gli immigrati nel preciso atteggiamento di rispetto della nostra antica dignità di Italiani che si incontrano con altrettanto rilevanti civiltà che il mondo contemporaneo ci ha fatto fortunatamente incontrare. Si può non accettare gli effetti della globalizzazione, di cui l’immigrazione è uno degli aspetti, ma non possiamo nasconderci che la presenza dell’immigrato è funzionale alle nostre realtà socio-economiche e conseguentemente comportarci in modo fraterno con chi tra noi viene per lavorare e vivere dignitosamente nel rispetto di leggi, usi e costumi.


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martedì 21 ottobre 2008

I calcestruzzi di Ferriera



Testo del video
Ferriera è una piccola frazione che sorge nel comune di Torgiano, distante neanche una decina di chilometri da Perugia. Un paese come tanti ce ne sono in Italia, senza grandi attrazioni ma senza neanche grossi problemi apparenti; un centro dove molte famiglie hanno deciso di stabilirsi con l’ambizione di potersi costruire un’esistenza dignitosa e tranquilla…Eppure anche in queste località minori, si possono nascondere problematiche impreviste e preoccupanti. Qualche giorno fa, Michele Baldoni, un amico del nostro blog, ci aveva segnalato una vicenda piuttosto seria riguardante il paese. Michele è un giovane giornalista che collabora con il Corriere dell’Umbria e che per questo giornale scrive articoli di cronaca sui fatti di Torgiano. È quindi sicuramente una persona informata sugli eventi di questo comune e una fonte attendibile sulla vicenda di cui andremo ora a parlare. Con Michele, abbiamo realizzato un’intervista in cui cerchiamo di spiegare brevemente che cosa non va nella piccola frazione torgianese…

Allora Michele, che cosa sta succedendo a Ferriera?
A Ferriera i problemi sono molti ultimamente, anche se non è un caso recentissimo. Però è tornato di attualità negli ultimi tempi perché l’azienda Calcestruzzi Magione, di proprietà del signor Mario Gradassi, purtroppo sta causando molti problemi ai cittadini di Ferriera che si sono riuniti infatti in un Comitato…

Che tipo di problemi ci segnali?
Fondamentalmente l’azienda Calcestruzzi Magione – con il suo lavoro di lavatura delle botti e di produzione di calcestruzzo – produce un eccessivo inquinamento che si traduce in un’aria irrespirabile per i cittadini e soprattutto produce un rumore oltre la soglia consentita dalla legge. Ciò ha causato la presa di posizione dei cittadini che si sono riuniti in un Comitato per protestare contro il lavoro di questa azienda.

Ci dicevi poi che questa azienda è stata coinvolta in azioni giudiziarie ed è stata condannata; leggevo ad esempio che nel Maggio del 2007 c’è stata una sentenza del giudice Massimo Ricciarelli che ha condannato la Calcestruzzi Magione a pagare dei risarcimento alle famiglie residente della zona. Quali sono state le motivazioni che sono state accolte dal giudice? E poi volevo sapere se, dopo questa sentenza, le cose sono cambiate o sono rimaste tali e quali…
Allora, la prima sentenza del giudice Ricciarelli ha visto la condanna della Calcestruzzi Magione. Il proprietario Gradassi ha dovuto corrispondere alle famiglie del Comitato di Ferriera il corrispettivo previsto per il superamento della soglia di rumore, dei decibel consentiti dalla legge. Poi il giudice Ricciarelli ha condannato la Calcestruzzi Magione ad installare delle barriere antirumore e anche delle barriere antinquinamento. Il fatto è che Gradassi non ha installato né l’una né l’altra cosa. Quindi i cittadini continuano a protestare. C’è da dire che i cittadini non vogliono comunque la chiusura dell’industria, perché è dietro a questa scusa che si trincera l’azienda. I cittadini non vogliono mandare a casa e rendere disoccupati i cinquanta dipendenti, ma vogliono solamente che il proprietario installi queste barriere, come previsto dalla sentenza.

Sono peraltro – almeno penso - richieste legittime! Ma nessuno sta facendo nulla per imporre alla Calcestruzzi Magione di installare questi dispositivi?
Alcune forze politiche si stanno facendo sentire. Io personalmente sto facendo molti articoli. Però non basta, perché ci vorrebbe solamente che il Sindaco e la maggioranza prendessero una posizione chiara e facessero rispettare questa sentenza all’azienda di calcestruzzi; cosa che purtroppo per ora non avviene. C’è da dire che – oltre alla prima sentenza del giudice Ricciarelli – c’è stata anche la Cassazione che si è espressa: ed ha confermato la condanna alle suddette cose che abbiamo elencato.

La famiglia Gradassi, proprietaria della Calcestruzzi Magione, non è peraltro nuova a vertenze di tipo giudiziario. Nel maggio del 2007 Carlo Gradassi - che è il figlio di Mario, titolare dell’azienda di Ferriera - è stato coinvolto in un’ inchiesta piuttosto famosa nella nostra regione, per intenderci quella che ha coinvolto il costruttore Giombini. In pratica, questa inchiesta ha fatto emergere pesantissime concussioni tra il settore dei costruttori locali e le principali istituzioni dell’Umbria (alcuni magistrati, ad esempio, sono stati arrestati). Quello che ti volevo chiedere è se tu hai degli elementi per sostenere se questi intrecci di affari hanno avuto il loro peso anche nella vicenda di Ferriera?
Beh, non ho elementi certi per affermare una commistione di cause che determinano questi eventi. Però personaggi come Mario Gradassi sono certamente persone che incutono un certo timore nei piccoli comuni come Torgiano. Quindi sicuramente assessori e sindaci ci pensano bene prima di prendere provvedimenti che possano ledere l’immagine o condannare questi personaggi a sborsare denaro e a rispettare le richieste dei cittadini.

E infine l’ultima domanda che ti volevo fare. Hai parlato nelle precedenti domande della presenza di un Comitato e volevo chiederti appunto quale è stata la reazione della popolazione locale a questa vicenda. Quali sono le rivendicazioni che il Comitato di cittadini pone e quali sono le iniziative intraprese per raggiungere gli obiettivi?
Diciamo che il Comitato, in questi ultimi due anni, ha sempre voluto rimanere senza una propria connotazione politica. Ultimamente c’è da dire che il gruppo di minoranza de “La Bilancia” di Torgiano si è impegnato nel sostenere questo Comitato e nel portare avanti questa campagna per tutelare i cittadini e tutelare la loro salute (c’è da ricordare che nella sentenza, sono stati riconosciuti ai cittadini molti elementi come lo stress causato dal rumore, l’inquinamento, l’aria irrespirabile). Il Comitato ha ottenuto di far venire un organo come l’Arpa, che è la società che fa le rilevazioni nel rumore nei decibel prodotto dalle industrie e che ha certificato l’illegalità delle lavorazioni dell’industria di Gradassi. Quindi, dopo due condanne, si aspetta che le forze politiche facciano il loro dovere.


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domenica 19 ottobre 2008

Prof. Paul Connett a Terni. Non inceneriamo il nostro futuro!

Pubblichiamo la locandina dell'incontro con il prof. Paul Connett, figura di riferimento della strategia rifiuti zero, che si terrà a Terni mercoledì 29 Ottobre.


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venerdì 17 ottobre 2008

LA CLASSE... entre les murs


Eccomi di nuovo allo Zenith, ma questa volta c’è qualcosa di diverso. Le strette scale che portano all’ingresso sono investite da un serpente umano di una certa lunghezza, un serpente umano che chiacchiera, che sbuffa, che si dà pacche sulle spalle e che avanza lentamente. Dopo un po’ mi arrendo all’evidenza: c’è la fila allo Zenith! Non i soliti quattro studenti, le solite cinque vecchiette, i soliti due innamorati… c’è una fila vera è propria! Guardando meglio la folla, ci si accorge che quasi tutti hanno visibilmente una faccia da professori… e quasi a conferma di ciò, ecco che mi ritrovo davanti una mia ex professoressa di matematica e un mio ex professore di storia! Li saluto, contenta di rivederli, ed entriamo nella sala cinematografica… il film che sta per cominciare è “LA CLASSE… entre les murs”, un film di Laurent Cantet basato sull’omonimo libro di François Bégadeau, professore di lettere in una scuola media di periferia di Parigi (nonché attore principale del film)… va ricordato, prima di guardare questo film (e per apprezzarne pienamente il valore), che tutti gli attori sono stati scelti nello stesso istituto dove Bégadeau insegna, non sono quindi attori professionisti e questo ci fa apprezzare ancora di più il loro talento e il loro impegno. La trama è molto semplice, anzi… sembra quasi che non ci sia una vera è propria trama, ma che il film sia piuttosto un documentario realizzato da un professore per dipingere al meglio la sua realtà.

Entrando in classe, la cinepresa si sofferma sui volti, sugli sguardi e sui gesti di ciascun studente, lasciando intravedere una realtà problematica, segnata da profonde cicatrici sociali, che però non viene mai rivelata del tutto, poiché durante tutto il film il punto di vista rimane quello del professore, che fa parte della vita dei suoi studenti senza poter però penetrare quell’invalicabile frontiera che lo separa da essi. Gli studenti, poco motivati e senza molto spirito d’iniziativa, vengono rappresentati come un turbolento e caotico gruppo di giovani che ignora le leggi della civile convivenza e ha imparato a vivere dalla strada. I genitori vengono rappresentati come illusi, come persone ignoranti che non conoscono il proprio figlio e gli mettono addosso i panni di primo della classe quando in realtà la media del loro piccolo genio non supera il 4… il film non è superficiale, poiché lascia intuire quali siano le dinamiche sociali e familiari che si nascondono dietro il comportamento dei giovani e che determinano il loro rapporto con l’autorità, ma insiste molto di più sul punto di vista di un professore deluso che cerca tuttavia di fare del suo meglio per invogliare i suoi studenti, per scatenare una reazione (una qualsiasi reazione) che possa risvegliare il loro interesse alle lezioni.

Confrontando il film con la situazione scolastica nella quale vivo, devo ammettere che ci sono alcune analogie. Di certo è differente la situazione sociale che ci circonda poiché il film rappresenta benissimo la realtà di una scuola urbana di periferia, ma non quella di una tranquilla (troppo tranquilla) scuola umbra all’ombra della Basilica di S.Francesco d’Assisi. Tuttavia, credo che ciò che accomuna le due scuole sia che parola d’ordine oggi è l’elogio del menefreghismo, dell’apatia nei confronti di tutto ciò che viene considerato “cultura”. È abbastanza frequente incontrare una concezione della scuola puramente utilitaristica e fiscale, nella quale contano soltanto i voti e manca spazio all’iniziativa, personale o di gruppo, all’inventiva, alla creatività. La paura di mettersi in mostra agli occhi dei professori e dei compagni condiziona spesso molti studenti che si sentono spinti a rientrare nei ranghi, a studiare quanto basta senza tuttavia darlo a vedere. La contestazione all’autorità non è sostenuta da motivazioni valide e il solito “NO!” non viene accompagnato da proposte alternative, ma resta sospeso nell’aria senza dare frutti. Vengono considerati “fighi” coloro che riescono ad arraffare una sufficienza senza studiare, e che poi se ne vantano davanti a coloro che (studiando o meno) al 6 non ci sono arrivati. Invece, chiunque provi ad approfondire un argomento, a studiare non solo per dovere ma anche per sete di sapere, a contestare il sistema scolastico per il suo (eccessivo) spirito didattico, a leggere un libro per interesse proprio, viene considerato uno sfigato. La contestazione al sistema è giusta e necessaria, ma se negli anni ’70 le università e le scuole venivano occupate per dare corsi alternativi, per formare lo spirito critico degli studenti, per ribellarsi alla logica del “pensare troppo fa male”, nel 2008 non esiste più (o almeno, non nella mia realtà quotidiana) una volontà di massa di cambiare e migliorare le cose, ma solo un lungo letargo durante il quale si studia solo perchè “si deve farlo”…

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Non dimentichiamo chi é SOLO!

15 ottobre 2008- Non dimentichiamo chi è SOLO!

Ieri sera mi sono svegliato di colpo dal torpore incomprensibile in cui la coscienza di questo nostro Paese, e dei suoi abitanti, si nasconde di fronte agli uomini che cercano, che provano, a lottare per cambiarlo e migliorarlo. Il mio è stato come un risveglio brusco da un indeterminato sogno, che ti spaventa inesorabilmente per il buio profondo attorno al tuo letto. Purtroppo, però, mi sembra di iniziare già a riassopirmi, anche se, contemporaneamente, l’ incubo, di cui mi sono reso conto aprendo gli occhi, sta crescendo sempre di più. Proprio per questo ho deciso di racchiudere, in queste poche righe, quello che penso e che provo, in modo tale da cercare di non far si che tutto continui a scorrermi addosso come se nulla mai fosse successo. Forse, sintetizzando al massimo, avrei dovuto intitolare il tutto con “Paurosa Indifferenza”, oppure “Disumano Menefreghismo”. Forse, addirittura, non esistono neppure dei termini idonei a far comprendere veramente quello che significa il dolore e la disperazione di un uomo, il quale, in tutta lucidità, si rende conto di esser solo in mezzo alla moltitudine, in mezzo ad un’intera Nazione. Nel momento, poi, in cui avviene questo, si scatena, generalmente, pure la tragedia più devastante che ci può colpire e ferire nell’animo. Si sente dire : “ Ci dispiace, ma chi te lo ha fatto fare? ” oppure “ Manifesto la mia totale solidarietà!”. E poi, di seguito, tanti altri luoghi comuni, profondamente inutili e fastidiosi, i quali si ammassano, come lance acuminate, nel cuore indebolito del loro destinatario. Fatto sta che, delle parole solenni e di bella presenza, un uomo il quale vive tutta la sua vita fuggendo, quasi come se fosse un morto che vaga senza meta, non ne ha, di certo, un impellente bisogno. Ben altro effetto, invece, avrebbero un po’ di sincera comprensione e di calore umano, ma questo è tutto un altro discorso. E lo stesso vale per quegli altri uomini che partecipano alla sua “fuga perenne”, difendendola a spada tratta e non rinunciando mai a perseguire, insieme a lui stesso, questa missione di cambiamento, intrapresa con passione e coraggio, e forse anche con un pizzico di “beata incoscienza”. Perché, in mezzo a questi uomini di oggi, c’è sia chi, in verità, ha la possibilità di gridare, ogni tanto ed in vario modo, la sua rabbia ed incredulità; ma c’è anche chi non ha voce alcuna in capitolo e, temo, non avrà nemmeno alcuna memoria. Per quest’ ultimi credo si possa dire, a buon diritto, che la morte è una delle loro migliori “amiche”. Tuttavia, nelle periferie del mondo dove consumano la maggior parte del tempo, dai loro occhi e dalle loro gesta non è facile evincere la paura o il terrore, anche se, nella maggior parte dei casi, al loro posto, ci starebbero in pochi. D’altronde, nonostante tutto, vediamo che, in un modo o nell’altro, la battaglia continua. Ognuno ci mette quello che, di più e di meglio, può dare, ma nessuno mai si scorda di essere semplicemente un uomo, al pari di tutti gli altri. Il fatto è però un altro. Attorno ad essi si estende il vuoto. E’ come se attori principali e difensori-aiutanti si trovassero in un teatro senza l’ombra di uno spettatore pagante. Del resto non c’è poi tanto da sorprendersi per questo. L’ abitudine a preferire la repressione di quello che difetta nella realtà sociale, rispetto alla prevenzione ed al ragionamento sui motivi della sua origine, risulta essere ormai un fenomeno perfino scontato. Per effetto di questo, ovviamente, coloro i quali si dedicano, nel senso più ampio del termine, alla seconda opzione, sopra detta, non hanno la necessaria considerazione. Poi, una volta che questi meccanismi puramente repressivi fanno cilecca, il principale bisogno dei più non diviene altro se non scandalizzarsi all’infinito per tale malfunzionamento. Spesso mi sembra proprio che la disgrazia, la tragedia, abbia un sapore ammaliante ed irresistibile per il genere umano. E molto spesso, inoltre, penso che il vero “oro nero”, la fonte inesauribile di guadagno, sia proprio tutto ciò che di male noi uomini, ovunque, riusciamo a generare. Titoli cubitali, trasmissioni a non finire e discussioni su discussioni per cercare di capire il perché di tanto male, ed il perché non si riesca a punirlo compiutamente o ancor meglio ad annientarlo prima che possa accadere. Creiamo così un immenso polverone mediatico, come si usa dire, non facendo altro che incrementare costantemente la confusione nelle menti, ed il torpore nei cuori. Tanto è vero che c’è bisogno di alzare la voce allo stesso modo perché la storia di questi uomini soli non rimanga chiusa in un cassetto, a fianco a loro, ed abbia solo benefici per pochi sprazzi di luce nel momento del ricordo. Addirittura c’è bisogno, all’estremo, della loro morte perché per qualche giorno chi di dovere si commuova per la loro vita e li degni del meritato rispetto.
Ma dico io, dobbiamo essere condannati alla solitudine eterna per godere della celebrità nella storia e dei funerali solenni? Non è sufficiente nascere e morire senza altri accanto, perché possiamo chiederci quale sia il senso di tutta la nostra esistenza?
Spero ora nel dialogo con chiunque affinché un barlume di risposta possa materializzarsi.
Prima di tutto, però, ringrazio chiunque leggerà le mie parole e si fermerà anche solo un attimo a pensare a questi umili uomini che vivono di solitudine, tracciando la strada che si dovrebbe seguire verso il futuro. La loro vocazione è, e spero sarà sempre, donarsi incondizionatamente agli altri, al fine di costruire insieme una vita migliore, non tanto per loro ma per chi verrà dopo.
Perciò iniziamo a rispettarli ogni giorno di più e ad imparare da loro, dal loro amore sconfinato per quello che sono e dal loro coraggio nel manifestarlo. E’ questa, secondo me, la strada giusta per aiutarli a vincere.

Una citazione dalla lettera di Roberto Saviano alla Repubblica del 15 ottobre 2008 che riporta quello che hanno immediatamente detto i carabinieri della sua scorta quando si è saputo di alcune rivelazioni di pentiti riguardanti il progetto camorrista di omicidio dello scrittore campano.
“ Robbé, tranquillo che non ci faremo fottere da quelli là!”

P.S. Nessuno dei sette carabinieri della scorta che protegge 24 ore su 24 Roberto Saviano, e ci tengo a sottolineare che sono tutti dei padri di famiglia, in questi giorni di terribile terrore, ha chiesto mai di essere trasferito.

_Alessio Ortica_

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giovedì 16 ottobre 2008

UN MONDO DI TUTTI: SHIRIN

Qualche tempo fa, alcuni di noi (Giacomo, Alessio e Moira) che si sentono particolarmente toccati dai problemi relativi all’integrazione degli immigrati, hanno incontrato e intervistato una giovane studentessa iraniana, Shirin (amica di Fede, il quale ce l'ha fatta conoscere), in Italia da quattro anni. La ragazza si è laureata in Iran in letteratura italiana, ed è poi venuta in Italia per proseguire i suoi studi iscrivendosi alla facoltà di economia. Il suo progetto iniziale contemplava l’Italia solo come una fase temporanea della sua vita, poiché Shirin sente di dover tornare in Iran, a lavorare e a dare il suo contributo per una società migliore.
Ci sentiamo subito toccati dalla spontaneità e dalla naturalezza di Shirin, che con occhi ridenti e una grande forza nelle parole ci regala un’intervista che si snoda da sola, e che meriterebbe di essere trascritta per intero ma che abbiamo preferito riassumere, per renderla più breve e più leggibile al pubblico.

Interrogando Shirin sul viaggio che dall’Iran l’ha portata qui, la ragazza ci risponde così: “dal punto di vista degli aspetti burocratici ci hanno fatto girare tantissimo da un ufficio all’altro, considerando che la lingua la parlavo malissimo e capivo poco, ho avuto difficoltà… ero con mia sorella, poi quando lei ha visto tutte queste cose qua è voluta tornare!”
Durante il lungo pellegrinaggio che portava Shirin di ufficio in ufficio, la ragazza veniva trattata come una fuggitiva, non come una semplice studentessa venuta in Italia per frequentare l’Università e farsi un futuro. La sua nazionalità sembrava incidere sul comportamento che gli impiegati avevano con lei, che spesso la consideravano un parassita venuta in Europa per vivere sulle spalle degli altri. Per Shirin, che non conosceva ancora bene l’italiano, è stato difficile dare spiegazioni e difendersi. Lentamente, e con grande difficoltà, la lingua italiana divenne meno misteriosa e Shirin se ne appropriò benissimo, anche grazie all’aiuto degli amici e in particolare di una “coinquilina con cui dividevo la camera, italiana, che mi ha aiutato tanto. Mi correggeva mentre parlavo, mi spiegava ciò che non capivo.”


In Italia, Shirin non cerca di frequentare a tutti i costi i suoi connazionali, ma anzi dice di non conoscere quasi nessun iraniano e di avere in compenso molti amici italiani. “sinceramente conosco pochissimi persiani. Lo che ce ne sono tanti, li vedo. Ma non mi piaceva fare una cosa chiusa fra persiani mentre vivo in Italia, perciò non è che li cerco tanto…” Shirin ha infatti paura di ritrovarsi intrappolata in una comunità chiusa e difficilmente penetrabile, da dove una volta entrata sarebbe quasi impossibile uscire. Certamente sa che la comunità è molto solidale quando si tratta di aiutare un connazionale, ma Shirin se ne tiene lo stesso alla larga, temendo la logica del clan… “Anche perchè o fai parte di tutto, o ne stai fuori, non puoi approfittare solo delle cose positive. O devi entrare del tutto o ti lasciano fuori. Devi sempre essere in contatto con loro, devi sempre uscire con loro e tutto il resto… e poi quando non fai queste cose devi spiegare il perchè, e a me non andava…” Shirin preferisce scegliere i suoi amici senza essere condizionata dalla loro nazionalità, e le viene più facile integrarsi nella società italiana piuttosto che entrare nella comunità iraniana della zona, dove le persone (legate dal senso di appartenenza ad una nazione comune) sviluppano amicizie “obbligate” e contribuiscono così alla tessitura di una salda rete di rapporti che, a volte, blocca l’iniziativa personale.

In Iran la giovane Shirin era molto attiva nel movimento universitario che analizzava la politica e la religione ufficiale e cercava di far circolare fra i giovani un’informazione diversa, nella speranza di colpire il sistema con l’unica arma che gli studenti hanno a disposizione, la diffusione della cultura. Ciò era molto rischioso in un paese come l’Iran, nel quale “qualsiasi cosa che vada contro la politica e la religione ufficiale viene considerata illegale”.
“Eravamo un gruppo di giovani che aveva tanti dubbi sulla religione, dunque ci riunivamo e leggevamo dei testi religiosi per poi discuterne” naturalmente l’analisi critica dei testi religiosi era un problema fondamentale per Shirin e i suoi compagni, che tuttavia non riuscivano a procurarsi tutti i testi necessari poiché nella Repubblica Islamica il controllo dell’informazione è molto ferreo, e molti testi (sacri come profani) vengono censurati. La Repubblica si definisce Islamica, ma “la religione viene usata come uno strumento e lo rigirano come vogliono”
Gli universitari creavano seri problemi al potere, le università sono sempre state un luogo brulicante di idee clandestine, e Shirin può testimoniare che “gli studenti in Iran sono il gruppo più attivo e più critico nei confronti della politica. È un fenomeno che è cominciato un po’ dopo la Rivoluzione Culturale, perchè gli studenti sono sempre stati più liberi e ribelli rispetto alla società.” Non solo gli studenti, ma anche molti professori si opponevano al potere ufficiale tenendo lezioni che trattano di attualità, incoraggiando discussioni e sostenendo manifestazioni. Ultimamente però è diventato sempre più pericoloso scendere in piazza a manifestare, e le università sono molto più sorvegliate che in passato. Molti professori con idee “sovversive” vengono licenziati, o addirittura imprigionati. Shirin ci dice che “Il più grande sciopero studentesco risale a nove anni fa, e hanno ammazzato un sacco di gente, ne hanno arrestata ancora di più… e ci sono tantissimi studenti di cui non si sa più nulla, non si sa dove siano finiti”
La politica interna di Ahmadinejad tende a voler controllare le attività degli studenti (e della gente in generale) con la paura. “Ahmadinejad ha deciso che adesso, anche per una cosa piccola, c’è la pena di morte. Visto che la pena di morte ora è permessa, dipende dalla politica decidere se utilizzarla o meno… ciò serve per creare paura tra la gente” oltre alla pena di morte, dopo la Rivoluzione nella legislazione iraniana è stata introdotta ufficialmente la sharia, che viene applicata più o meno rigorosamente a seconda dei casi e dei magistrati che li seguono.

La politica post-rivoluzionaria si accanisce in modo particolare contro le donne. Dopo l’apparente tolleranza che il regime dello scià aveva avuto nei loro confronti, le donne dell’Iran vengono oppresse dalle leggi e dalla religione. Shirin ci dice che nella concezione di Islam che è stata adottata dal regime iraniano, la donna è vista come un essere inferiore, una creatura fragile e maligna che l’uomo ha il diritto di possedere e di tenere sotto controllo. La legge è apertamente schierata dalla parte dell’uomo, tanto che “Secondo il Corano la vita di una donna vale metà della vita di un uomo, quindi per essere condannato dalla legge per stupro devi violentare almeno due donne…”


Parlando della Rivoluzione Culturale, Shirin ci ha spiegato che l’ultimo scià (Mohamed Reza Pahlavi) aveva cominciato ad intraprendere una politica di apertura nei confronti dell’Occidente. Secondo Shirin però, lo scià non aveva completamente ragione nel voler imitare i costumi occidentali… “Non è che io sia tanto d’accordo nemmeno con lo scià, perchè comunque secondo me gli italiani devono rimanere italiani, gli americani devono rimanere americani… e i persiani devono rimanere persiani. Il mondo è bello così, con le sue differenze. È giusto prendere certe cose dagli altri paesi, ma non tutto.”… “Anche perchè fare un indistinto copia e incolla sarebbe impossibile. Anche se guardiamo solo l’Europa, vediamo che i francesi non sono come gli italiani, gli italiani non sono come i tedeschi…”

La Rivoluzione Culturale, avvenuta nel ’79, era sostenuta da molte categorie di persone che si distinguevano tra loro per idee e progetti. Fra loro c’erano lavoratori, studenti, oppositori politici dello scià, fondamentalisti islamici. Questi ultimi presero il sopravvento sugli altri e arrivarono al potere con l’ayatollah Khomeyni, che prima di allora era pressoché sconosciuto, poiché allontanato con l’esilio in Iraq dallo scià Reza Pahlavi (padre di Mohamed Reza) a causa del suo militarismo clandestino nell’ambito del fondamentalismo religioso. Fra l’altro, Khomeyni era uno degli organizzatori di diverse congiure fallite ai danni dello scià. Shirin parla di Khomeyni come di “una persona stupida. Ha parlato male della legge che concedeva il voto alle donne, e dunque lo hanno esiliato in Iraq” Tornò poi a guidare la Rivoluzione fiancheggiato dai mullah, che hanno progressivamente accresciuto il loro potere nel paese. Secondo Shirin “In questi ultimi tempi i mullah hanno cambiato il loro ruolo. Prima erano lì per aiutare la gente, un po’ come i preti. Ora sono diventati dei politici”
Dopo la Rivoluzione, la gente cominciò a rendersi conto che il paese stava lentamente cadendo nelle mani dei fondamentalisti, ma non ebbe tempo di reagire che già era cominciata la guerra contro l’Iraq e tutti avevano altro di cui occuparsi. I fondamentalisti si erano avveduti dello scontento generale e “avevano bisogno di una cosa per indebolire la gente… e cosa c’è di meglio di una guerra? Quando c’è una guerra con un altro paese, tutti lasciano perdere i conflitti interni e vengono a difendere il paese dai nemici esterni.” Così cominciò, nell’80, la sanguinosa guerra fra Iran e Iraq che si protrarrà fino all’88 (conosciuta in Iran anche come la “Guerra Imposta”). Una guerra “imposta” quindi, appoggiata dall’Occidente, il quale traeva i suoi profitti dallo scontro di due potenze petrolifere mondiali. Shirin ci dice che “lo scià era molto forte nel controllare il prezzo del petrolio. Infatti negli anni Settanta è aumentato tantissimo e questo non piaceva all’Occidente…”… “sotto lo scià facevamo paura a tutto il Medio Oriente perchè avevamo tante armi. Eravamo diventati ricchi e avevamo un grande esercito con tante armi… per questo lo scià ha provato ad aumentare il prezzo del petrolio. E secondo me tutto il conflitto è cominciato da qui”
L’Occidente era quindi spaventato all’idea che l’Iran diventasse una potenza economica capace di controllare il mercato mondiale del petrolio, e una guerra contro l’Iraq avrebbe indebolito l’egemonia iraniana in Medio Oriente. Difatti “Saddam prendeva quasi tutte le sue armi finanziate dagli Stati Uniti” e da molte altre potenze occidentali, quali la Francia, la Germania, l’Argentina e il Brasile. L’Iran aveva anche lui i suoi accordi finanziari (era protetto per esempio dalla Cina)…

Nonostante l’avversità nei confronti della politica iraniana, Shirin sostiene che non è per questi motivi che ha lasciato il suo paese. “Io sono venuta qui solo per studiare e per tornare a cambiare le cose nel mio paese. Io ho sempre creduto che se fuggi dal problema il problema non viene mai risolto… infatti secondo me chi rimane e combatte fa una cosa grande… il risultato che si ottiene è un’altra cosa. Non possiamo essere sicuri del risultato che otterremo, ma comunque combattere è importante. Secondo me chi rimane per cambiare le cose può far qualcosa di positivo. Poi secondo me non è vero che non ci si riesce mai, anche perchè ho conosciuto tante persone che potevano scappare dal paese e sono rimaste, magari anche in situazione di crisi… insomma per me sono sempre stati dei modelli molto importanti”…
Per Shirin, il vero cambiamento può venire soltanto dalla gente “Solo un cambiamento che viene da dentro, mai un cambiamento che viene da fuori del paese può aiutare” solo chi vede le cose dall’interno può trovare una soluzione concreta ai problemi dell’Iran, nemmeno gli iraniani che stanno troppo a lungo lontani dalla loro patria non hanno idea di come vadano le cose. Ci sono molte organizzazioni politiche iraniane negli Stati Uniti che credono nel ripristino dell’epoca dello scià, epoca che per Shirin è scaduta da tempo e non potrà mai tornare. Quegli iraniani che invocano il ritorno dello scià non sanno nulla dell’attualità del loro paese, non si rendono conto di quanto le cose siano cambiate. Questo perchè i mezzi di informazione non danno una reale immagine dell’Iran, ma ne danno un’immagine distorta, fasulla. In Italia si sa poco o niente riguardo all’Iran, l’ignoranza è così diffusa che “la maggior parte degli italiani pensa che l’Iran è un paese arabo…”

Per quanto riguarda le valutazioni sul sistema universitario e le differenze fra quello iraniano e quello nostrano, si deve dire che l’ opinione di Shirin è fondamentalmente critica verso l’Italia, anche se, a livello personale, lei ci ha confessato di aver incontrato una certa gentilezza e disponibilità. Questo purtroppo non è accaduto nell’ esperienze compiute frequentando la facoltà di Economia, da lei scelta come indirizzo di studio.
“Problemi tuoi.Quando hai deciso di venire a studiare in un altro paese dovevi considerare tutte le difficoltà che avresti potuto incontrare.”Questa é una delle risposte più emblematiche che si è sentita dire nel momento in cui ha cercato supporto nei docenti al fine di migliorare la sua capacità di comprensione delle lezioni che tenevano. Anche durante i primi esami sostenuti ha avuto modo di riscontrare nuovamente questa stessa superficialità ed indifferenza. Insomma, da questa posizione negativa è emerso che, secondo lei, in Iran l’istruzione universitaria sia maggiormente organizzata ed, in linea di massima, più facilmente accessibile dal punto di vista economico. Oltre tutto sono previsti dei limiti di tempo entro i quali è obbligatorio aver conseguito la laurea, ed esistono organismi universitari appositamente istituiti per il controllo e la vigilanza del comportamento dei docenti, i quali quindi sono generalmente più disponibili in quanto maggiormente responsabilizzati.
Per quel che attiene alle differenze principali fra i due popoli, iraniano ed italiano, si può dire che Shirin abbia praticamente posto l’accento cruciale sul rapporto che nei due paesi si ha, generalmente, con le istituzioni, con la classe politica dirigente e con gli organi di informazione. In Iran, secondo lei, c’è molta più diffidenza rispetto al comportamento medio degli italiani, il quale le sembra essere lassista ed abitudinario.In sintesi c’è uno stimolo minore ad andare ad analizzare quello che viene proposto dall’alto quotidianamente, ed il bisogno di ricercare fonti alternative ed il confronto con quello che accade all’estero risulta essere meno sentito nel nostro paese. Shirin peraltro afferma che questo sia naturale, in quanto nel suo paese trasmettono programmi radiofonici e televisivi sugli Stati Uniti, sull’ Inghilterra ed in generale sui paesi occidentali, per poi metterli a confronto con la situazione iraniana e dire, in fine, fondamentalmente tutte bugie, cercando di manipolare la realtà a favore degli interessi dello Stato. Secondo lei, inoltre, la mancanza di un effettivo senso critico e di una vera e propria volontà di analisi, confronto e dialogo non è presente solo negli spettatori, ma pure nel “mondo” di chi dovrebbe fare informazione e procurare, nel miglior modo possibile, gli strumenti idonei ad una osservazione più obiettiva e meno condizionata. Per fare un esempio, durante il primo anno della sua vita in Italia, vide alla televisione un sevizio giornalistico che parlava di Teheran (città di 15 milioni d’abitanti) inquadrando un’immensa distesa desertica, quando paradossalmente la città è posizionata in una zona montuosa.
Degno di essere riportato è, poi, il suo pensiero sulla figura della donna in Italia, ed in generale in occidente, la quale è caratterizzata da una posizione di contrarietà. In primis, la sua critica è rivolta verso quella logica, che porta le donne a sembrare esclusivamente un oggetto da copertina in tutto e per tutto funzionale ai bisogni del sesso maschile. Anche da ciò emerge, per contrapposizione, il fatto che in Iran questo tendenziale sfruttamento dell’immagine femminile non si riscontra assolutamente, e non solo semplicemente in virtù del contesto religioso e culturale, ma, soprattutto, perché sussistono espliciti impedimenti legislativi in tal senso.
Per chiudere, ritornando sul discorso delle aspirazioni future, ci dice”Io credo che, per la realizzazione di questa mia speranza, la chiave irrinunciabile sia la conoscenza, la cultura, la quale sola può salvare dall’ignoranza e quindi, molto probabilmente, dalla miseria e dal degrado. In particolare la mia aspirazione è sempre stata conseguire una laurea universitaria, per poi acquisire una cattedra in un ateneo iraniano. Ora ho visto che, comunque, è molto “rischioso” fare programmi a lungo termine, a maggior ragione se ti trovi all’estero, perché non sai mai cosa ti può accadere nel mezzo e chi potresti conoscere durante tale esperienza. Quello che resta indiscusso è che non vorrò mai “tagliare i ponti” con la mia terra di origine, l’Iran, dove sicuramente, prima o poi, farò ritorno.”


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martedì 14 ottobre 2008

Giovani insegnanti nella scuola italiana: una specie in via d'estinzione

Chi segue le peripezie del nostro blog, avrà sicuramente notato come in questa ultima settimana il sottoscritto abbia rotto le scatole assai con vari articoli relativi alla riforma Gelmini della scuola. È chiaro che nel parlare della questione sono in palese conflitto di interessi, in quanto riporto nel blog – quindi in uno spazio aperto a tutti e che dovrebbe concernere tematiche di interesse comune – problematiche riguardanti specificatamente la mia professione. La pubblicazione di questo mio post risulta ancora più indegna se teniamo conto di quale categoria mi sto accingendo a difendere. Gli insegnanti, questi individui spregevoli che lavorano solo 18 ore a settimana, i cui spropositati guadagni dissanguano le casse dello stato alimentate dalle nostre tasse; era ora che qualcuno li tagliasse come si deve, questi parassiti; per fortuna che Silvio c’è…

L’opera meritoria intrapresa dal Ministro della Pubblica (D’)Istruzione Giulio Tremonti (e dalla sua simpatica valletta Mariastella Gelmini) si realizzerà ricorrendo ad una strategia articolata, che prevede l’accorpamento delle scuole in un numero ridotto di poli, la riduzione del monte orario previsto per ogni indirizzo, il superamento delle attività di co-docenza con insegnanti specializzati (di laboratorio, di lingue, etc.), il taglio drastico degli istituti serali e chi più ne ha più ne metta. Il Ministro, chiunque esso sia, amorevolmente ci spiega che tali tagli non sono dovuti solo ad esigenze di bilancio, ma ad alti principi sociali e pedagogici. Ad esempio, nel giustificare la volontà di chiudere tutti gli istituti con meno di 300 alunni, lo schema di piano programmatico del Ministero dell’Istruzione afferma che la polverizzazione sul territorio di piccole scuole non risulta funzionale al conseguimento degli obiettivi didattico-pedagogici, in quanto non consente l’inserimento dei giovani in comunità educative culturalmente adeguate a stimolarne le capacità di apprendimento e di socializzazione. E io che pensavo che lo facessero solo per non sganciare un euro…sono proprio un malpensante.

Morale della favola, quando fra tre anni il decreto sarà a pieno regime, più di 87 mila insegnanti (corrispondenti a circa il 11-12% della attuale classe docente italiana) si ritroveranno letteralmente con le braghe a terra. A questi dobbiamo aggiungere altri cospicui tagli che riguarderanno il personale ATA (circa 45 mila tra bidelli, segretari, collaboratori di vario genere seguiranno la stessa sorte). In sintesi, entro tre anni 132 mila persone saranno a spasso e dovranno cercarsi un nuovo lavoro. Il piano programmatico parla di possibilità di riconversione professionale dei docenti e [del loro] utilizzo in compiti diversi dall’insegnamento; la qual cosa mi fa molto sorridere, perché suppongo sarà necessario elargire vaste risorse finanziarie per farci imparare (e si sa che gli insegnanti sono duri di comprendonio) un lavoro diverso da quella che volevamo fare. Se fate una gita in quel di Assisi, probabilmente mi avrete come guida turistica. Alla vostra destra potete ammirare lo splendido scenario della Basilica di San Francesco…

Il decreto Gelmini aggredisce drasticamente un intero ambito professionale, creando ansia e preoccupazione in tutti gli insegnanti della scuola italiana. Tuttavia esiste una categoria che uscirà dal ciclo riformatore con le ossa ancora più rotte degli altri. Quale? La risposta su, non è affatto difficile. I documenti non parlano, se non in maniera molto vaga, di criteri meritocratici e questo significa che ad essere colpiti saranno soprattutto i precari e i giovani. Già in questo anno scolastico sono state sospese le SSIS, le scuole di specializzazione che danno l’abilitazione all’insegnamento. Non che ne abbia nostalgia, assolutamente, visto che la logica che ne impregnava anche i muri certamente non poteva dirsi finalizzata alla formazione dei futuri docenti; che le SSIS fossero uno dei tanti scandalosi sistemi di potere del nostro paese, con cui elargire favori e finanziamenti ad amici e ad amici di amici, è una questione ben nota e la loro chiusura non scatenerà mai la scesa in piazza di orde popolari furiose. Tuttavia la fine delle SSIS sta a significare che – almeno nei prossimi anni – non verranno fatte più nuove assunzioni nel mondo della scuola. Un neolaureato al momento ha possibilità pari a zero di trovare lavoro nel campo dell’insegnamento. E anche i ragazzi che hanno avuto la “fortuna” di conseguire l’abilitazione e di rientrare nelle graduatorie, si trovano comunque con una bella spada di Damocle sulla testa; gli immediati tagli della mannaia tremontgelminiana riguarderanno soprattutto i più giovani, che sono quelli messi peggio in graduatoria a causa della scarsa anzianità. In assenza di criteri di merito, i giovani saranno i primi ad essere “epurati”.

Già oggi la classe docente italiana si caratterizza per avere una lunga “esperienza”. L’età media degli insegnanti si attesta sui 50 anni, con una presenza insignificante (intorno allo 0,6 %) della componente under 30. La gavetta nel precariato risulta piuttosto lunga e mediamente un docente può aspirare a diventare professore di ruolo intorno ai 40 anni. La riforma non farà altro che dilatare nel tempo questi dati, spingendo molti “sbarbatelli” anche motivati ad insegnare, ad intraprendere invece altre strade. I giovani nella scuola sono una specie in via d’estinzione: nessuno sembra essersene accorto, nessuno fa niente per invertirne la tendenza.


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Montgomery, 1955




Martin Luther King, I have a dream


Ultimamente troppo spesso assistiamo ad episodi di grave intolleranza contro immigrati e stranieri. Ricorderemo tutti il fatto di Milano in cui un giovane ragazzo di colore italiano, Abdul William Guibre, è stato massacrato a sprangate per aver rubato forse solo una scatola di biscotti. Seguono gli episodi di Castel Volturno, con la strage di 6 extracomunitari, di Roma, con il pestaggio di un giovane cinese, di Parma, con il presunto pestaggio da parte della locale polizia municipale del giovane Emmanuel Bonsu, e ci arriva da Varese in questi giorni la notizia di una quindicenne marocchina picchiata ed insultata per aver osato non lasciare il suo posto dell’autobus ad una coetanea bianca. Quest’ultimo episodio non può non riportare alla nostra mente la vicenda di Rosa Luois Parks, l’attivista statunitense afroamericana di Montgomery (Alabama) divenuta famosa per aver rifiutato nel lontano 1955 di cedere il posto dell’autobus ad un bianco.
E’ davvero lontano quel 1955? L’America di ieri, quella del Ku Klux Klan e di Martin Luther King, è davvero così lontana dall’Italia di oggi? Non voglio certo paragonare le azioni del KKK con quelle di ragazzini o adulti italiani, ma al di là delle azioni restano le motivazioni e le intenzioni che spingono persone a compiere certe gesti. A questo punto sarebbe quindi opportuno chiedersi se le motivazioni e le intenzioni che supportarono certi episodi nel profondo Sud statunitense sono le stesse che sono oggi alla base dei fatti di casa nostra. Di fronte a questi episodi subito ci viene detto che sono fatti isolati, che l’Italia è tollerante e che gli italiani non sono razzisti. D’altro lato si parla di clima di intolleranza legato a dinamiche semifasciste.
E’ chiaro che la questione richieda un’analisi socio-culturale ben più complessa. Resta comunque il fatto, a mio giudizio, che le dinamiche di certi episodi, legate ad un determinato clima politico – intendo soprattutto la questione della sicurezza – sembrano presupporre come legittimata una forma di giustizia arbitraria e soggettiva, nel caso in cui questa sia rivolta verso gli immigrati stranieri, fonte dei mali e dei malesseri italiani. L’Italia secondo me non è razzista, ha solo una paura, presunta, derivante da una diffusa ignoranza, non conoscenza dell’altro. Nel sentire parlare degli stranieri come una minaccia e nello sviluppare verso di loro forme di intolleranza più o meno manifeste, dimentichiamo di ricordare come minimo tre cose. In primo luogo dimentichiamo che fino a una trentina di anni fa noi italiani siamo stati per oltre un secolo un popolo di emigranti – e quindi di immigrati nei paesi di destinazione – subendo sulla nostra stessa pelle forme di intolleranza ingiustificata. In secondo luogo dimentichiamo con troppa facilità che quei neri o albanesi che ci pagano lauti affitti per “vivere” in un buco o quelle romene o ucraine che puliscono il culo ai nostri vecchi non hanno solo doveri, ma anche diritti. Dimentichiamo infine soprattutto che gli stranieri, gli immigrati o gli extracomunitari sono in primo luogo esseri umani che hanno preso la difficile scelta di abbandonare il proprio paese e spesso di stare lontano dalle proprie famiglie per ragioni non certamente futili o superficiali.
Sta a noi tenere lontano dall’Italia quel 1955.


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lunedì 13 ottobre 2008

Ad un anno dalla morte di Aldo Bianzino

Ad un anno dalla terribile vicenda, voglio ricordare la storia di Aldo Bianzino che - arrestato per detenzione di piante di marijuana - ha trovato la morte in circostanze quanto mai oscure nel carcere di Capanne. Aderendo all'appello di verità e giustizia lanciato da molte associazioni locali e nazionali (riportato in allegato), non posso non fare a meno di constatare come - nel caos mediatico creatosi attorno al famoso omicidio di una studentessa inglese - sia invece calato su Aldo un silenzio "assordante" su cui è necessario riflettere. Per maggiori informazioni, guarda il sito del Comitato Verità per Aldo .

Il carcere? Sicuro da morire!
Aldo Bianzino e la sua compagna Roberta il 12 ottobre sono stati arrestai con l’accusa di possedere e coltivare alcune piante di marijuana . Le forze dell’ordine si sono presentate in casa di prima mattina Aldo e Roberta sono stati portati via lasciando il figlio di 14 anni solo. Il giorno dopo vengono portati al carcere di capanne e qui separati, da questo momento Roberta non vedrà più il suo compagno che fino ad allora era in buone condizioni di salute.
Mentre Roberta viene condotta in cella con altre donne Aldo viene messo in isolamento. La mattina seguente, domenica 14 ottobre alle 8:15, la polizia penitenziaria entra nella cella, lo trova agonizzante e poco dopo muore. Da quel momento, la compagna, il figlio e gli amici si sono mossi per fare chiarezza su questa ingiusta morte chiedendo verità e giustizia perché di carcere non si può morire!

Infatti dopo un goffo tentativo di insabbiamento da parte delle autorità carcerarie (le prime indiscrezioni sulle cause della sulla morte si riferivano ad un improbabile infarto) famiglia e amici vengono a sapere che dall’autopsia risulta che Aldo e stato vittima di un vero e proprio pestaggio,
il corpo infatti presentava una frattura alle costole, gravi lesioni al fegato, alla milza e al cervello.

Anche l’arresto dei cinque ventenni spoletini, vittime di una perversa applicazione del 270bis, sembrerebbe essere stato creato ad hoc per distogliere l'attenzione dalle realtà sociali che richiedono verità ed intimidire il movimento che vuole far chiarezza sulla vicenda.

Il caso di Aldo è troppo simile a quello di Giuseppe Ales, Federico Aldrovandi, Alberto Mercuriali tutti vittime di una sorta di "spontaneismo intollerante" che agisce violentemente contro gli stili di vita non omologanti. Storie di persone vittime della “paranoia securitaria” che punisce in nome
della sicurezza chi gira senza documenti, rivendica la propria la libertà d’ espressione, coltiva marijuana per uso personale in un paese che invece dei trafficanti persegue i consumatori.

La necessità di verità e giustizia non si placa ! E' tempo per noi di prendere posizione, spazio e voce. Di raccontare. Di mantenere viva la memoria collettiva. Di difendere le nostre esistenze e le nostre pratiche da abusi, repressioni, pestaggi, “venduti” come atti di legalità.

Vogliamo Verità e Giustizia e continueremo a contrastare e opporci ad una società che sempre meno tollera qualsiasi tipo di espressione fuori dalla norma. E’ tempo di chiedere verità e giustizia per Aldo Bianzino [...], di farci carico delle sorti dei processi per il G8 di Genova rispondendo ai pruriti vendicativi del potere con una manifestazione nazionale che interrompe la costruzione di processi di oblio e rimozione collettiva.


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Signor Ministro, nella scuola come prima cosa occorre rispetto

Pubblico questa interessante lettera inviata dagli insegnanti del X° Circolo Didattico Ponte Pattoli (PG) - CODAD (Coordinamento Docenti Anti Decreto) al Ministro dell'Istruzione Gelmini.

Egregio Signor Ministro

Tutti noi ricordiamo la nostra maestra, chi con affetto, chi con pena, ma per tutti è stata una figura di riferimento come lo sono stati per decenni: il dottore, il maresciallo e il parroco; ma la maestra di deamicisiana memoria rispondeva alle esigenze di una società semplice, nella quale erano ben specificate gerarchie e classi sociali; da allora sono passati anni, la società è diventata più complessa e doveri e diritti sono avanzati di pari passo.

Il maestro unico ha svolto egregiamente la sua funzione, ma ora il suo ritorno è una misura antistorica e nostalgica che non tiene conto delle esigenze educative e didattiche dei nostri bambini, di quelli reali Signor Ministro, non dei numeri astratti che servono alla formazione delle classi.

Lei dice che la scuola primaria funzionerà bene anche con un solo maestro perché dunque averne tre? La risposta è molto semplice: la scuola è lo specchio della società e ad una società complessa corrisponde una scuola complessa aperta ad una pluralità di culture, di linguaggi, di idee, di disabilità e diverse abilità.

Una scuola plurale deve aprirsi a tutte le differenze: di provenienza, genere e livello sociale, la scuola che Lei ha in mente non prevede tutto ciò, altrimenti più che un insegnante, ci vorrebbe un mago per rispondere a tutte le esigenze.Tre insegnanti in due classi nelle ore di compresenza non stanno ad oziare sperperando danaro pubblico, cercano di garantire la piena cittadinanza a tutti gli allievi diversificando strategie di insegnamento a seconda dei bisogni cognitivi ed affettivo-relazionali di ognuno (recupero o sviluppo degli obiettivi), integrando le diversità ( disabilità e altre etnie); una scuola così è una scuola che con tutte le sue forze cerca di combattere la dispersione e favorisce ascolto e relazioni.

La scuola italiana Signor Ministro ha scelto la via dell' inclusione, non dell'esclusione come in altri Paesi dove accanto alla scuola per i normodotati esistono le classi differenziali; questa è per noi una scelta di civiltà, non di solo cuore e noi insegnanti cerchiamo di dare in tutti i modi a ciascuno ciò di cui ha bisogno.

Sapesse quante volte le insegnanti si accollano con il loro misero stipendio l'onere di spese per un materiale scolastico a cui le famiglie sempre più spesso non possono far fronte e sapesse quante ore rigorosamente gratis spendiamo a scuola al di fuori del nostro orario di lavoro; sciocche stakanoviste queste maestre elementari che hanno reso questa primaria la migliore tra i vari cicli della scuola italiana ed europea! È per tutto questo che ci sentiamo offese dalle Sue parole e rivendichiamo rispetto!

Il nostro è un lavoro complesso e siamo orgogliose della nostra professionalità, ci riconosca questo termine e non parli soltanto di "missione". Nella Sua lettera dice: " Noi vogliamo una scuola che insegni a leggere, a scrivere e far di conto. Una scuola in cui si torni a leggere I promessi Sposi e dove non si dica più che lo studente dovrà ".

Leggere, scrivere, far di conto. Signor Ministro, noi tutti lo facciamo sempre per almeno cinque ore al giorno, tutti i giorni, ma per "costruire il futuro" non basta; questa dimensione è riduttiva; noi pensiamo che la scuola abbia anche un compito più alto, quello di formare degli allievi che pensino con la loro testa che sappiano ipotizzare, essere creativi, dialogare, usare linguaggi diversi, stabilire relazioni significative e trovare soluzioni pacifiche ai conflitti perché per combattere il bullismo non è sufficiente il 5 in condotta.

Come vede vogliamo dalla scuola e pretendiamo dalla nostra professionalità molto di più di quello che Lei ci richiede SARÀ PER QUESTO CHE VUOL COMINCIARE A SMANTELLARE LA SCUOLA PROPRIO DAL CICLO D' ECCELLENZA? I tagli sono solo un modo di far cassa Signor Ministro non un modo per riqualificare questo ciclo scolastico!

f.to Perugia 24/09/2008

Gli insegnanti X° Circolo Didattico Ponte Pattoli (PG)
CODAD (Coordinamento Docenti Anti Decreto)



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giovedì 9 ottobre 2008

Mozione UDU contro la legge 133/08

Come gentilmente richiesto pubblico questa lettera inviatami da Tommaso Bori, contenente una mozione dell'associazione universitaria UDU rivolta al Senato Accademico e ai Consigli di Facoltà dell'Università di Perugia. Tengo a precisare che questa pubblicazione non significa necessariamente l'adesione di Socialmente Giovani ai contenuti proposti nell'articolo. Tale decisione - la cui responsabilità spetta solo al sottoscritto - deriva da una mia personale volontà di aprire un confronto sui radicali cambiamenti che stanno riguardando l'attuale sistema dell'istruzione italiana. Chiunque volesse ribattere o dare comunque un contributo alla discussione, può inviare al nostro indirizzo e-mail (socialmentegiovani@gmail.com) un intervento di risposta, al quale assicuriamo uno spazio adeguato all'interno del blog.

Considerazioni in merito alla legge 133 in materia di università e ricerca
Con la presente il gruppo consiliare della Sinistra Universitaria – UDU Perugia intende manifestare la propria indignazione davanti all’ennesima destrutturazione del sistema di formazione pubblico del nostro Paese. Partendo da quanto deciso con il Decreto 112, convertito nella legge 133/2008, fino ad arrivare a quanto esternato dal Ministro Gelmini emerge come il mondo universitario, nei prossimi mesi, sarà investito da un sostanziale sconvolgimento.

Il provvedimento più grave riguarda il fatto che viene data facoltà alle Università di potersi trasformare in fondazioni di diritto privato, rinunciando così alla rappresentanza delle varie componenti negli organi collegiali, trasformando il personale in dipendenti, gli studenti in clienti, il diritto allo studio in servizio a pagamento. Viene inoltre ridotto il fondo di finanziamento ordinario di 1,5 miliardi in cinque anni e si mettono in campo limitazioni per le assunzioni, arrivando addirittura all’80% per i primi anni.

In questo modo non solo si mette in discussione il carattere pubblico dell’Università, la cui capacità di reperire fondi da soggetti privati diviene non solo questione di sopravvivenza, ma addirittura elemento di valutazione, in più si rischia di minare alla radice anche l’equa possibilità di accesso ai più alti gradi della formazione della persona, quindi della collettività.

Attualmente infatti i Corsi di Laurea devono rispettare alcuni parametri, come previsto dal Decreto Ministeriale che istituisce i “requisiti necessari”: fra questi un numero minimo di docenti per ogni Classe di Laurea e un preciso rapporto numerico fra studenti frequentanti e numero di docenti.

Con questi tagli si andrà ad aggravare l’attuale carenza di strutture e di personale docente, è palese il rischio che la soluzione a questo problema venga individuata in un proliferare di Corsi di Laurea a numero chiuso e nella estinzione di altri.

La possibilità di rimpiazzare solamente il 20% del personale che andrà in pensione porterà ad un peggioramento dei servizi agli studenti, alla scadenza della didattica, causata dall’estinzione della ricerca pubblica e libera, tutto verrò relegato alla logica del profitto.

Questo provvedimento, inoltre, demolisce le fondamenta del diritto allo studio; in questo senso ci chiediamo se resterà in vigore il vincolo riguardante la tassazione universitaria ora fissato al 20% dell’FFO oppure se si assisterà ad uno sfrenato innalzamento delle rette.

La possibilità d’ingresso all’interno delle fondazioni di soggetti terzi potrebbe stravolgere ulteriormente l’offerta formativa didattica accentuando maggiormente quel divario tra atenei di serie A e atenei di serie B che già in parte è presente nel panorama nazionale e che questo provvedimento sicuramente non aiuta a risolvere.

Con questa denuncia l’associazione che rappresentiamo intende coinvolgere non solo gli studenti, ma anche tutti i diretti interessati dalla situazione caotica che si prospetta. Per questo motivo chiediamo anche alle altre componenti del mondo accademico e dell’universo che gli ruota intorno di prendere un posizione chiara, ferma, univoca e pubblica in modo da fare fronte comune e poter incidere seriamente sulle scelte del governo nazionale.

Non solo è nostro diritto, ma nostro preciso dovere morale, bloccare i negativi cambiamenti in atto, per lasciare un’Università pubblica migliore di quella che abbiamo ereditato. Crediamo fermamente che una riforma del sistema universitario sia necessaria, a patto che venga concertata e condivisa, nel pieno rispetto dei principi dettati dalla nostra Costituzione.



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Altrocioccolato 2008



Manifestazione ormai consolidata nel panorama culturale umbro, Altrocioccolato 2008 si tiene a Gubbio tra il 16 e il 19 Ottobre. Per maggiori informazioni, guarda il sito www.altrocioccolato.it

Che cosa è Altrocioccolato.
Altrocioccolato è una manifestazione culturale promossa dall'Associazione Umbria EquoSolidale, giunta quest'anno all'ottava edizione. Nel 2001, la coop. Monimbò promosse alcune iniziative di contrasto e contestazione a Eurochocolate, la fiera del cioccolato targata Nestlè che ogni anno si tiene a Perugia, in appoggio alla campagna di boicottaggio che da ormai 30 anni riguarda la multinazionale svizzera e contro un utilizzo puramente commerciale dello spazio pubblico cittadino, riunendole sotto l'insegna Equochocolate, poi diventata Altrocioccolato.

Negli anni successivi Altrocioccolato è stato promosso e organizzato da tutte le Botteghe del Mondo umbre, poi riunitesi nell'Associazione Umbria EquoSolidale, avendo tra i propri obiettivi quello di sensibilizzare il grande pubblico sulle tematiche inerenti la produzione, la trasformazione, la commercializzazione ed il consumo dei beni di cui siamo soliti fare uso, in particolare il cacao; promuovere il commercio equo e solidale (COMES) come modello di rapporti economici e sociali con il Sud del mondo centrati sulla promozione piuttosto che sulla prevaricazione e sullo sfruttamento; dimostrare la sostenibilità di un’economia alternativa a quella neoliberista, la reale possibilità di una diversa organizzazione dei rapporti Nord-Sud, la percorribilità di sentieri che portino a stili di vita diversi e alternativi rispetto a quello consumistico; sensibilizzare le Istituzioni al fine di giungere ad un diverso utilizzo degli spazi pubblici e delle pubbliche risorse. Essere consapevoli delle proprie scelte di consumo è oggi forse il mezzo più efficace per influenzare le scelte politico-economico-sociali di governo, dal livello locale fino a quelli sovranazionali, nonchè le scelte politico-imprenditoriali del mondo dell'impresa, dalle società multinazionali fino al piccolo produttore-trasformatore artigiano.

Attraverso eventi e iniziative, Altrocioccolato favorisce la conoscenza dei vari progetti di importazione del Comes, creando le condizioni per un suo sviluppo e allargamento e offrendo la possibilità ai produttori del Sud del Mondo di presentare i propri prodotti, i propri problemi, i propri progetti, il proprio lavoro.

Vengono presentati al pubblico realtà socio-economiche che stanno sviluppando progetti alternativi di produzione, dall’agricoltura biologica alla finanza etica, dal risparmio energetico alle fonti energetiche rinnovabili, sensibilizzando così l’opinione pubblica ed i consumatori sulle possibili alternative ai normali stili di vita e di consumo.

Dal 2004, a seguito di una lettera inviata da padre Zanotelli al Sindaco di Perugia la manifestazione si svolge stabilmente nella città di Gubbio, grazie al pieno sostegno fornito dall'Amministrazione Comunale, che ne ha condiviso ragioni e merito. Nel frattempo lo stesso Consiglio comunale di Perugia aveva approvato (Gennaio 2005) una delibera che recepiva in modo pressochè totale le ragioni del boiccottaggio a Nestlè, lasciandola però lettera morta; il tema delle sponsorizzazioni è sicuramente complesso da affrontare, soprattutto in tempi di contrazione delle risorse pubbliche disponibili, ma è assolutamente necessario metterlo sotto i riflettori, se non si vuole una solidarietà solo di facciata e come fatto puramente testimoniale, che lascia però inalterate le dinamiche economiche.


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martedì 7 ottobre 2008

Pubblichiamo il documento finale della manifestazione itinerante Carovana Missionaria della Pace 2008 che si è conclusa a Roma lo scorso 5 ottobre dopo un mese di iniziative tenutesi in tutta Italia.


Carovana missionaria della pace 2008
documento finale dei giovani


Noi, carovane Missionaria della Pace abbiamo concretamente percorso le strade d'Italia al Sud come al Nord. Abbiamo visitato luoghi, incontrato persone, fatto esperienze di "parole" incatenate in merito alle tematiche dell'acqua, delle migrazioni e della militarizzazione. Dalla nostra itineranza emerge con forza che nel nostro Paese:

  • l'informazione è imbavagliata, distorta, superficiale e forviante. La responsabilità è della mancanza di onesta intellettuale e professionale dei media, ma anche nella mancanza di senso critico e indifferenza che molte volte hanno gli stessi cittadini;
  • vi è una crisi di democrazia evidente, che si concretizza nella mancanza di ascolto, da parte delle istituzioni, delle istanze e delle urgenze che vengono dalla base e dai territori. Tale rifiuto di dialogo viene messo in atto con imposizioni quali: la presenza ingiustificata dell'esercito sul territorio; il divieto della manifestazione della volontà popolare e l'esautorazione di fatto del ruolo del parlamento, principale detentore del potere legislativo;
  • la legalità è costantemente negata a favore di interessi di gruppi ristretti, mafie e potentati finanziari e politici.
Acqua
Come Carovana missionaria della Pace 2008, nella nostra itineranza, abbiamo incontrato comunità e luoghi in cui si sente forte la necessità di liberare la parola Acqua. Uniamo la nostra voce nel denunciare le conseguenze di morte che nascono dall'utilizzo della acqua come fonte di profitto e la scandalosa negazione dell'accesso all'acqua in alcune zone. Recuperando la spiritualità dei luoghi del Vajont sentiamo di poter sostenere che il principio da cui partono le nostre proposte è che: l'acqua è un bene comune, un diritto inalienabile dell'umanità, da tutelare per le generazioni future. Non può essere trattata come una merce, pertanto non deve essere soggetta a privatizzazione. Per questo chiediamo che:
  • venga riconosciuto questo principio da parte delle istituzioni, a partire da quelle locali;
  • si ritorni ad una gestione pubblica diretta della rete idrica comunale, poiché gli strumenti legislativi e normativi lo permettono;
  • le amministrazioni pubbliche garantiscano l'accesso all'acqua potabile e la trasparenza relativa alla gestione del servizio idrico affinché tutti i cittadini abbiano accesso alle informazioni sull'acqua pubblica e sulle sue analisi (carta d'identità dell'acqua);.
  • le pubbliche amministrazioni pretendano dalle aziende che imbottigliano l'acqua il pagamento delle concessioni ad un prezzo equo (l'acqua non è di proprietà dell'azienda che la imbottiglia!): anche se crediamo che non si possa barattare l'ambiente con un canone, riteniamo che questo possa essere un primo passo concreto per far prendere posizione alla politica, affinché limiti l'azione di queste industrie che ora agiscono praticamente senza alcun controllo;.
  • venga avviato l'iter per l'approvazione della legge di iniziativa popolare per la gestione pubblica dell'acqua che è stata presentata al parlamento italiano con più di 400.000 firme;
  • tutta la comunità cristiana abbia il coraggio di dire che fare profitto attorno all'acqua è una logica di "peccato", contraria alla Vita; fare profitto sull'acqua, impossessarsene e mercificarla equivale a rubare.
Ci impegniamo a:
  • imparare a conoscere gli strumenti di partecipazione della cittadinanza previsti dalla Costituzione Italiana, e a proporne l'utilizzo per "democraticizzare" la gestione dell'acqua;
  • lavorare per una informazione intellettualmente onesta sul tema dell'acqua; informazione che si fa formazione volta alla riduzione dei consumi e/o a consumi più consapevoli;
  • sostenere le campagne "Mettiamola fuori legge" e "Imbrocchiamola!", e lanciare anche la proposta-provocazione di inserire sulle bottiglie il messaggio "Nuoce gravemente all'ambiente";
  • laddove, illegalmente, non sia garantito l'accesso pubblico all'acqua, fare pressione innanzitutto affinché questo avvenga;
  • fare memoria della storia locale dell'acqua, ascoltandola e raccontandola (da dove viene l'acqua che beviamo? quali sono le risorse oggi e ai tempi dei nostri avi?) perché nei vari territori tutti la conoscano e la prendano a cuore.
Militarizzazione
L'Italia è un paese che nel silenzio si militarizza sempre di più. Denunciamo le molte realtà militarizzate (Vicenza, Aviano, Brescia, Varese, la Sicilia. la Campania …). Troppo spesso le nostre comunità cristiane sono attente al tema della vita, ma indifferenti a queste strutture pensate per provocare la morte.
Ci impegnamo a:
  • coltivare una spiritualità nonviolenta, per disarmare prima la nostra coscienza;
  • sfatare il mito della "sicurezza", in favore di logiche di incontro ed accoglienza;
  • a camminare con le nostre comunità per denunciare le realtà militari presenti nei nostri territori e cercandone la conversione anche attraverso la preghiera.
Immigrazione
Percorrendo le strade di Italia, siamo stati accolti dai nostri fratelli immigrati e da tante realtà che tentano di vivere una esperienza di convivialità delle differenze. Vivendo parte della quotidianità di tanti nostri fratelli vittime di razzismo, si è rafforzata in noi la convinzione che l'incontro personale con l'Altro possa vincere le paure e gli stereotipi in questo momento così diffusi. Per questo chiediamo alle comunità Missionarie:
  • di diffondere una informazione sui temi dell'immigrazione libera da pregiudizi attraverso tutti gli organismi che le hanno dato vita;
  • di promuovere all'interno della Chiesa, una fede che si incarna nel vivere la quotidianità dell'Altro, per una Chiesa con le porte aperte;
  • di interagire con le altre realtà non ecclesiali attive nella promozione della multi-culturalità.
Come carovanieri ci impegnamo a testimoniare e diffondere una cultura in cui l'Altro non è escluso, cercando:
  • la partecipazione dei fratelli immigrati nella costruzione di una società che vuole essere civile;
  • un percorso di collaborazione e crescita reciproca tramite momenti di incontro con gli immigrati;
  • individuare le realtà che hanno aperto le proprie porte all'altro nei nostri territori, per raccogliere la loro testimonianza come segno concreto di accoglienza;
  • il dialogo con quella Chiesa che promuove un vangelo di sicurezza, per scoprire assieme nuovi percorsi di convivenza.

Come comunità Missionarie siamo chiamati alla coerenza e alla responsabilità verso quello che abbiamo vissuto in termini di realtà di oppressione e di speranza. Sentiamo l'esigenza di creare forti reti di solidarietà e resistenza per "liberare la parola" e dire sì alla Vita. Come cristiani vogliamo camminare in modo nonviolento cercando l'incontro e la condivisione con chi subisce, con chi resiste e con chi resta ancora indifferente.


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Anna Politkovskaja...e resto

Il ricordo dell’assassinio (politico) impunito della giornalista russa Anna Politkovskaja, di cui oggi ricorre il secondo anniversario, rimane fortunatamente ancora ricordato tra le notizie dei Tg in Italia. Non so per quanto questo accadrà; come spesso accade nel nostro paese, lo spazio e lo spessore dato a notizie che fanno (o dovrebbero far) riflettere resta estremamente ridotto e risicato. Non è quindi un caso che in Italia nessuno conosca tutta una serie di nomi e numeri, che meritano di essere ricordati al pari di quello di Anna Politkovskaja, il cui assassinio ha comunque ricordato al mondo che c’è gente che viene uccisa per esprimere un’opinione, come del resto la stessa giornalista ricordava nel 2005 durante una conferenza di Reporters sans frontière a Vienna sulla libertà di stampa denunciando che:
« Certe volte, le persone pagano con la vita il fatto di dire ad alta voce ciò che pensano. Infatti, una persona può perfino essere uccisa semplicemente per avermi dato una informazione. Non sono la sola ad essere in pericolo e ho esempi che lo possono provare. »
Vogliamo allora ricordarli noi i nomi delle persone che negli ultimi anni hanno pagato con la vita una loro idea, per dare loro quel tributo che meritano:
Ajmal Naqshbandi, freelance; Zakia Zaki, Sada-i-Sulh; Kenji Nagai, APF News; Fesshaye “Joshua” Yohannes, Setit; Paulos Kidane, Eri-TV and Dimtsi Hafash; Jean-Rémy Badio, freelance; Carlos Salgado, Radio Cadena Voces; Ahmed Hadi Naji, Associated Press Television News; Falah Khalaf al-Diyali, Al-Sa’a; Hussein al-Zubaidi, Al-Ahali; Abdulrazak Hashim Ayal al-Khakani, Jumhuriyat al-Iraq; Jamal al-Zubaidi, As-Saffir and Al-Dustour; Mohan Hussein al-Dhahir, Al-Mashreq; Yussef Sabri, Biladi; Hamid al-Duleimi, Nahrain; Thaer Ahmad Jaber, Baghdad TV; Khamail Khalaf, Radio Free Iraq; Othman al-Mashhadani, Al-Watan; Khaled Fayyad Obaid al-Hamdani, Nahrain; Dmitry Chebotayev, freelance; Raad Mutashar, Al-Raad; Alaa Uldeen Aziz, ABC News; Saif Laith Yousuf, ABC News; Nazar Abdulwahid al-Radhi, Aswat al-Iraq and Radio Free Iraq; Mohammad Hilal Karji, Baghdad TV; Sahar Hussein Ali al-Haydari, National Iraqi News Agency and Aswat al-Iraq; Aref Ali Filaih, Aswat al-Iraq; Filaih Wuday Mijthab, Al-Sabah; Hamid Abed Sarhan, freelance; Sarmad Hamdi Shaker, Baghdad TV; Namir Noor-Eldeen, Reuters; Khalid W. Hassan, The New York Times; Mustafa Gaimayani, Kirkuk al-Yawm and Hawal; Majeed Mohammed, Kirkuk al-Yawm and Hawal; Adnan al-Safi, Al-Anwar; Amer Malallah al-Rashidi, Al-Mosuliya; Muhannad Ghanem Ahmad al-Obaidi, Dar al-Salam; Salih Saif Aldin, The Washington Post; Shehab Mohammad al-Hiti, Baghdad al-Youm; Alisher Saipov, Siyosat; Birendra Shah, Nepal FM, Dristi Weekly, and Avenues TV; Suleiman Abdul-Rahim al-Ashi, Palesatine; Mehboob Khan, freelance; Noor Hakim Khan, Daily Pakistan; Javed Khan, Markaz and DM Digital TV; Muhammad Arif, ARY One World TV; Zubair Ahmed Mujahid, Jang; Tito Alberto Palma, Radio Mayor Otaño and Radio Chaco Boreal; Miguel Pérez Julca, Radio Éxitos; Ivan Safronov, Kommersant; Mohammed Abdullahi Khalif, Voice of Peace; Abshir Ali Gabre, Radio Jowhar; Ahmed Hassan Mahad, Radio Jowhar; Mahad Ahmed Elmi, Capital Voice; Ali Sharmarke, HornAfrik; Abdulkadir Mahad Moallim Kaskey, Radio Banadir; Bashiir Noor Gedi, Radio Shabelle; Subash Chandraboas, Nilam; Selvarajah Rajeewarnam, Uthayan; Isaivizhi Chempiyan, Voice of Tigers; Suresh Linbiyo, Voice of Tigers; T. Tharmalingam, Voice of Tigers; Hrant Dink, Agos; Chauncey Bailey, Oakland Post; Edward Chikomba, Zimbabwe Broadcasting Corporation (former); Carsten Thomassen, Dagbladet; Carlos Quispe Quispe, Radio Municipal; Khem Sambo, Moneaseka Khmer; Alexander Klimchuk, Caucasus Images; Grigol Chikhladze, Russian Newsweek; Stan Storimans, RTL Nieuws; Ashok Sodhi, Daily Excelsior; Javed Ahmed Mir,Channel 9; Alaa Abdul-Karim al-Fartoosi, Al-Forat; Shihab al-Tamimi, Iraqi Journalists Syndicate; Jassim al-Batat, Al-Nakhil TV and Radio; Sarwa Abdul-Wahab, freelance, Murasalon; Soran Mama Hama, Livin; Mohieldin Al-Naqeeb, Al-Iraqiya; Haidar al-Hussein, Al-Sharq; Musab Mahmood al-Ezawi, Al-Sharqiya TV; Ahmed Salim, Al-Sharqiya TV; Ihab Mu’d, Al-Sharqiya TV; Fadel Shana, Reuters; Chishti Mujahid, Akbar-e-Jehan; Siraj Uddin, The Nation; Mohammed Ibrahim, Express TV and Daily Express; Abdul Aziz Shaheen, Azadi; Dennis Cuesta, DXMD; Martin Roxas, DYVR; Magomed Yevloyev, Ingushetiya; Telman (Abdulla) Alishayev, TV-Chirkei; Hassan Kafi Hared, Somali National News Agency; Nasteh Dahir Farah, freelance; Paranirupasingham Devakumar, Maharaja Television; Athiwat Chaiyanurat, Matichon, Channel 7; Chalee Boonsawat, Thai Rath.
Per risparmiarvi la conta: dal 2007 ad oggi sono ufficialmente 97 i giornalisti uccisi nel mondo. Più altre 36 morti sospette.
Nomi e numeri da far riflettere.


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Iniziativa di Emergency in Darfour


Segnaliamo questa importante iniziativa di Emergency in Darfour. Per maggiori informazioni, www.lanostraideadipace.it

Un Centro pediatrico in Darfour. La nostra idea di pace
L'anno scorso con la campagna "Diritto al cuore" - promossa per sostenere il Centro Salam di cardiochirurgia in Sudan - sono stati inviati oltre 620.844 sms. La raccolta fondi complessiva è stata di 699.671 euro e tutti i fondi sono stati utilizzati a copertura dei costi di acquisto di materiale sanitario e di consumo impiegato presso il Centro a Khartoum.

Con l'iniziativa "Un Centro pediatrico in Darfur. La nostra idea di pace" si raccolgono fondi per iniziare i lavori di scavo e costruzione di un Centro che potrà offrire cure mediche di base ai bambini fino a 14 anni, programmi di immunizzazione e attività di educazione igienico-sanitaria in un'area del Sudan.

I costi di costruzione, di equipaggiamento e di avvio della struttura sono stimati in circa 600 mila euro.

Dal 3 al 22 ottobre è possibile fare una donazione tramite SMS solidale per sostenere il nuovo progetto di Emergency. Si può donare 1 euro se si invia un SMS al 48587 dal telefonino personale (per i clienti TIM, VODAFONE, WIND, 3). Si donano 2 euro se si chiama al 48587 da rete fissa TELECOM.

Con questo progetto Emergency assicurerà assistenza sanitaria qualificata e gratuita alla popolazione di un'area vastissima, dando attuazione a un diritto umano fondamentale: il diritto alla salute.

Si ringraziano Tim, Vodafone, Wind, 3 e Telecom per la concessione del numero unico.


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lunedì 6 ottobre 2008

Nobel a Luc Montagnier: ovvero come mettervi una pulce sull’orecchio…


Luc Montagnier e Peter Duesberg

6 ottobre 2008. I dispacci giornalistici di tutto il mondo annunciano l’assegnazione del premio Nobel per la medicina ─ in coabitazione con i medici europei Françoise Barré-Sinoussi e Harald Zur Hausen ─ al professore francese Luc Montagnier. Nel sito internet della Nobel Foundation di Stoccolma, si legge che Montagnier ha ricevuto l’ambito riconoscimento per la sua scoperta del virus dell’immunodeficienza umana (a tutti noto, più semplicemente, come virus dell’ HIV). Tale scoperta risale in realtà al 1983, anno in cui ─ come riferisce Repubblica ─ il medico francese [isolò] il virus che causa l'Aids, identificandone la produzione nei linfociti prelevati nei linfonodi di pazienti nei quali l'infezione era all'esordio e nel sangue di pazienti agli ultimi stadi della malattia. Una scoperta definita dal comitato per il Nobel "essenziale per la conoscenza attuale della biologia di questa malattia e per il suo trattamento anti-retrovirale”. Un risultato che finalmente trova la giusta celebrazione, tenendo conto anche della tragica portata dell’HIV/AIDS, il flagello del ventesimo secolo. Tutti oramai sappiamo che l’AIDS è una malattia di origine virale che si trasmette soprattutto per via sessuale; tutti inorridiamo nel leggere le cifre sconvolgenti che parlano di circa di due milioni di morti all’anno nel pianeta; tutti cerchiamo di ricorrere alle giuste precauzioni per evitare il contagio della malattia.

Queste constatazioni vengono al giorno d’oggi considerate talmente ovvie che nessuno pensa più di metterle in discussione. E molti di voi penseranno sicuramente che mi sono bevuto il cervello quando leggeranno le cose che mi accingo a scrivere. Eppure esistono da tempo, a livello internazionale, correnti di pensiero all’interno dell’ambiente medico che osano affermare ciò che non può essere affermato. Ciò che tali movimenti sostanzialmente dicono è sconvolgente, pazzesco, incredibile: l’AIDS non è una malattia causata dal [retro]-virus dell’HIV.

Come ci ricorda Wikipedia (che nella sezione italiana assume una posizione molto scettica nei confronti nelle teorie non ufficiali), di opinioni dissidenti ne esistono in realtà diverse e non necessariamente sono in accordo tra di loro. Alcuni sostengono che l’HIV non esiste nemmeno, altri ne ammettono l’esistenza ma ne affermano l’innocuità, altri ancora pensano che ’HIV sia solo uno dei fattori di concausa che originano la malattia. In questo articolo non voglio e non posso (per mancanza di tempo e di competenza) esporre quelle che sono le ragioni del movimento dissidente. Se volete approfondire, potete fare delle ricerche su internet e di materiale ne troverete a bizzeffe (per un’occhiata veloce, guardatevi www.disinformazione.it Per avere una visione più completa, potete invece accedere sul sito dell’Associazione Oikos ). E se siete proprio motivati, andatevi a leggere il manualino tascabile di 500 e rotte pagine “AIDS. Il virus inventato” di Peter H. Duesberg, autore di riferimento tra coloro che si oppongono alla versione ufficiale. Un libro che quando lo lessi ─ circa un tre anni fa ─ mi lasciò letteralmente di stucco…

Alla luce di questo materiale, non posso negare di avere oggi molti dubbi sulla quella che una volta era per il sottoscritto una certezza granitica. Ripeto, non sono un esperto e non ho strumenti per dare una valutazione rigorosa su una tematica così delicata. Quello che però ho assodato con ragionevole certezza è che è la teoria ufficiale ─ sia essa nel giusto o nel torto ─ ha finito per sbaragliare le voci dissidenti, con il risultato che non è stato mai fatto un dibattito serio sull’origine della malattia. L’ambiente medico ─ praticamente quasi nella sua interezza ─ avrebbe accettato acriticamente l’assunto (ritenuto assolutamente privo di fondamento da figure di prestigio come il premio Nobel per la medicina K.B.Mullis) che l’Aids è provocato dall’HIV. La mia memoria è labile ma a che io ricordi, non ho mai trovato articoli di giornale o assistito a trasmissioni televisive che si occupassero di ipotesi alternative a quella virale. Nel suo libro, Duesberg racconta di essere stato isolato ─ per le sue critiche all’establishment pro HIV ─ dalla comunità scientifica americana e di essere stato tagliato dai fondi per la ricerca, nonostante il suo prestigio nel campo della Biologia molecolare e cellulare. Il presidente sudafricano Thabo Mbeki venne duramente attaccato quando nel 2000 inserì alcuni esponenti del gruppo dissidente tra i componenti di una commissione tecnica sull'AIDS.

Fatti questi che fanno sicuramente riflettere, su una comunità scientifica che l’immaginario collettivo vede agire coesa in un’ottica di salvaguardia dell’interesse comune. Nel sostenere la fallacità della teoria AIDS/HIV, Duesberg e soci denunciano invece i meccanismi di corruzione del sistema che la ha perpetrata. In primis naturalmente troviamo il grande giro di affari delle multinazionali farmaceutiche che, nell’ ipotesi virale dell’AIDS, hanno sguazzato ottenendo ancora una volta, con i farmaci e i test HIV, giganteschi profitti. Molti dissidenti sottolineano però il grave clima di complicità dell’ambiente medico-scientifico, il quale ha sempre avvallato una teoria che permette un facile accesso ai finanziamenti pubblici e privati e la possibilità di ottenere cariche di prestigio. Al contempo, chiunque si sia opposto alla versione dei fatti ufficiali è stato invece emarginato, deriso, isolato…

Finisco questo post, segnalandovi un ultimo articolo (“L’incredibile AIDS” di Gian Paolo Vallati) che ho trovato mentre ricercavo dei dati sul volume d’affari dell’industria dell’AIDS (la quale sembra che negli ultimi anni abbia smosso un qualcosa come 100 milioni di dollari nei soli Stati Uniti). Sebbene molto esplicito, mi sembra un buon documento di controinformazione in cui sono ben sintetizzate le posizioni del movimento dissidente. Buona lettura!



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