lunedì 29 settembre 2008

Vertenza di Pietramelina: GESENU condannata

Una notizia relativa ad una delle più annose vertenze territoriali umbre (quella della discarica di Pietramelina). Per maggiori informazioni www.inceneritorizeroumbria.it

CONDANNATA GESENU PER INQUINAMENTO AL TRIBUNALE PENALE DI PERUGIA
Partecipata conferenza stampa questa mattina a Perugia presso la Sala della Partecipazione in Via della Viola, nella quale il Comitato InceneritoriZERO, Italia Nostra e Legambiente, attraverso le parole dei rispettivi avvocati Urbano Barelli e Emma Contarini, hanno esposto le motivazioni della condanna inflitta a GESENU S.p.A. dal Tribunale Penale di Perugia.

Il Direttore della Discarica di Pietramelina Giuliano Cecili e il Direttore Generale della GESENU Giuseppe Sassaroli sono stati condannati dal Giudice Giangamboni a 4 mesi di reclusione, al pagamento di un’ammenda di 3.000 Euro, delle spese processuali per le costituzioni di Parte Civile e a bonificare il sito inquinato. La sentenza ha inoltre riconosciuto il diritto alla richiesta del risarcimento avanzata dal Comitato InceneritoriZERO, Italia Nostra e Legambiente, che dovrà essere quantificata dal Tribunale Civile in successiva udienza.

Il reato accertato dalla Procura della Repubblica di Perugia è di sversamento di percolato dalla discarica di Pietramelina nelle acque del Torrente Mussino verificatosi il 18 Ottobre 2004.

In tale data le acque del torrente assunsero una colorazione marrone-ruggine inducendo i cittadini a far scattare la denuncia; la centralina di monitoraggio posta al di sotto della discarica di Pietramelina era quel giorno inspiegabilmente inattiva e impossibilitata ad allertare gli organi competenti. I dati della suddetta centralina hanno rilevato nel corso degli anni sversamenti di percolato che si ripetono in maniera sistematica, evidenziando la difficoltà da parte dei gestori della discarica di controllare l’inquinamento ambientale.

La mancata costituzione di Parte Civile da parte del Comune di Perugia a questo processo ci ha sconcertati in quanto il danno ambientale provocato è solo un’inezia rispetto al danno morale subito dai cittadini delle zone limitrofe che si trovano a convivere vicino ad una bomba ecologica di inimmaginabili dimensioni.


Walter Marri
Presidente Comitato InceneritoriZERO

Giuliano Corbucci
Portavoce Comitato InceneritoriZERO


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giovedì 25 settembre 2008

Precari...lavorano e tanto si lagnano

Qualche giorno fa, ho avuto il piacere di ospitare un mio carissimo amico di Monaco di Baviera, in vacanza in Italia insieme alla ragazza. Nel parlare del più e del meno, ricordando i bei momenti passati insieme nel periodo del suo soggiorno Erasmus a Perugia, come quando ce ne stavamo belli spaparanzati sulle scalette del Duomo o al pratino di San Francesco o quando intonavamo beati le canzoni d’osteria in quella sbornia collettiva che è l’October Fest (con il sottoscritto che – assolutamente deficiente nella teutonica lingua – becerava suoni senza senso alcuno), è inevitabile che il discorso finisca malauguratamente su famiglia, salute e lavoro.

Se per le prime due voci non mi posso certo lamentare, nella terza le cose si fanno leggermente più complicate. Farfugliando parole in uno stentato inglese (per rendere partecipe anche la di lui fanciulla), ho cercato di far capire loro qual è la situazione attuale di un insegnante precario italiano. Per tutto il tempo in cui ho parlato di questo argomento, i miei amici hanno tenuto gli occhi come sgranati, quasi stessi parlando di cose a loro incomprensibili. Non riuscivano a capacitarsi del fatto che un professore – ma credo una qualsiasi persona in senso più generale – dovesse accettare questi condizioni di instabilità nella propria situazione lavorativa. Mi hanno poi spiegato quali sono gli stardand per i colleghi miei coetanei in Germania…e fare confronti, immaginerete bene, è come sparare sulla Croce Rossa.

Scrivo queste righe proprio nel giorno in cui ho assunto (anche se per ora non ho firmato nessun contratto) il mio primo incarico per l’anno scolastico 2008-2009. Tre ore in quel di Norcia, dove ormai sono di casa, per una classe di concorso che non è neanche quella voluta. Lavorerò in un classe serale, scelta che se da una parte potrebbe essere molto appagante da un punto di vista umano, mi costringerà a viaggiare da solo di notte magari in mezzo a tormente invernali. Avrei potuto timbrare il cartellino per altre otto ore, sempre in Valnerina, ma per motivi che sarebbe troppo lungo spiegare ho preferito non accettare. Dico solo che il cervellotico sistema che distribuisce le cattedre di matematica e di fisica spinge molti di noi – comunque assillati dal problema del precariato – a rifiutare incarichi anche appetibili.

A dieci giorni dall’inizio delle attività didattiche, gli organici della scuola sono una vera gruviera svizzera, con tanti buchi ancora da riempire. Ai precari spetta il compito di colmare questi vuoti indesiderati. Dunque largo ai precari, viva i precari! Chissà perché allora, nei giorni antecedenti alla chiamata, l’inquietudine ci sovrasta rendendoci pensierosi, alienati, ansiosi? Durante il giorno, attesa spasmodica dell’arrivo dei postini, ambasciator senza pena dei telegrammi delle scuole; durante la notte, accensione di lumi e candele in onor degli dei dell’ intero Olimpo vaticinando una sorte che – se non proprio fortunata – sia quanto meno non avversa. Calche oceaniche si condensano alle convocazioni del Provveditorato e tra grida isteriche e squilibri collettivi, si assegnano quei pochi agognati posti che danno la gloria eterna (almeno fino a giugno). Calcoli scientifici, ragionamenti complessi, ma se Tizio va a Canicattì, forse Bordighera è mia per fare previsioni matematicamente esatte su un futuro quanto mai incerto.

Qualche giorno dopo a qualche giorno fa, i miei due amici tedeschi mi hanno accompagnato ad una cena che avevo organizzato con i miei ex compagni della SSIS, ora tutti professori precari. Tra insegnanti è praticamente impossibile non parlare di scuola e quando tra insegnanti si parla di scuola, è praticamente impossibile non parlare di precariato: la sempre di lui donzella – incuriosita dall’animosità con cui affrontavamo certi discorsi – ha chiesto al marito di una mia collega perché discutevamo in quel modo. E il caro coniuge, impeccabile nella lingua che fu di Shakespeare e di Joyce, le ha risposto di non fare caso alle esternazioni di frustrates.

Un pensiero un po’ più serio per concludere questa sfilza di chiacchiere incontrollate. Ne parlo in condizione di privilegiato, visto che mamma e papà ─ nel mandare avanti la carretta ─ ancora sganciano il soldo necessario. Si è tanto parlato negli ultimi tempi di difendere l’istituzione della famiglia contro i pericoli del mondo moderno e della sua rapida evoluzione. Ci viene detto che riconoscere i diritti alle coppie di fatto mette seriamente a rischio la formazione di nuove famiglie tra i giovani della nostra epoca. Ci si rimprovera anche di essere dei bamboccioni, che non vogliamo lasciare il nido materno, che non vogliamo mai crescere.

Avrete capito dove voglio andare a parare. Se saremo costretti per sempre a vivere in questi condizioni di assoluta precarietà, che un giorno lavori e il giorno chissà che fine farai, con gli stipendi che anziché aumentare vengono ridotti, senza poterci permettere neanche uno straccio di piano futuro per la nostra vita...come fate a dire che siamo dei bamboccioni, come fate a dire che non vogliamo andare via di casa, come fate a dire che non vogliamo mettere su famiglia? E se magari li volessimo quei tre o quattro marmocchi che ci rendano la vita meravigliosa? O più modestamente, potere avere una vita indipendente, con dei progetti e dei sogni da coltivare? È questo possibile senza per forza doversi sposare una milionaria? Io una milionaria ancora non l’ho mai conosciuta e tanto sono sicuro che non mi piacerebbe…


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mercoledì 24 settembre 2008

Convegno sul nuovo piano regionale dei rifiuti, Gubbio 18 Ottobre 2008


Segnaliamo questa interessante iniziativa organizzata dal Comitato per la Tutela Ambientale della Conca Eugubina.

NUOVO PIANO REGIONALE dei RIFIUTI
In considerazione della carenza d’informazioni rispetto alla realtà e alle possibili soluzioni del problema rifiuti, il Comitato per la Tutela Ambientale della Conca Eugubina invita cittadini ed ISTITUZIONI regionali provinciali comunali al convegno pubblico che si svolgerà a GUBBIO SABATO 18 OTTOBRE ALLE ORE 15 presso il CENTRO SERVIZI S.SPIRITO.

“I RIFIUTI: PROBLEMA o RISORSA?”
Scopo del convegno è discutere e valutare il NUOVO PIANO REGIONALE dei RIFIUTI:
• E’ possibile evitare l’incenerimento e la conseguente diffusione di sostanze dannose nell’ambiente?
• E’ possibile evitare la saturazione delle discariche e la conseguente moltiplicazione dei rischi per la salute pubblica?
• E’ possibile creare nuove possibilità occupazionali da una diversa gestione dei rifiuti?

Relatori:
- CARLA POLI imprenditrice (Amministratrice delegata del “CENTRO RICICLO di VEDELAGO” Treviso): “Come trasformare e riutilizzare i rifiuti considerati irriciclabili”
- Dott ALESSIO CIACCI assessore all’ambiente del Comune di Capannori (Lucca) “Un comune può realizzare LA STRATEGIA: “OBIETTIVO RIFIUTI ZERO?”
- RIFIUTO CON AFFETTO (RCA) del collettivo: Publink (R Bruzzecchese - M. Vantaggi - M Zanchi) che ha concepito una nuova modalità di RIUSO.

Sono stati invitati ad intervenire:
- il Sindaco del Comune di Gubbio ORFEO GORACCI
- l’Assessore all’ambiente della Regione dell’Umbria LAMBERTO BOTTINI
- gli Assessori all’ambiente della Provincia di Perugia S. CRISTOFANI e di Terni G. PELINI
- l’Assessore all’ambiente del Comune di Gubbio LUCIO PANFILI

Presiederà e modererà il convegno il Dr Giovanni Vantaggi Referente per l’Umbria dell’Associazione Internazionale Medici per l’Ambiente (ISDE-Italia). Seguirà dibattito.

COMITATO PER LA TUTELA AMBIENTALE DELLA CONCA EUGUBINA


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lunedì 22 settembre 2008

Castelluccio, il tetto degli Appennini si rifà il look

Da www.umbriaclick.it

Parla il primo emigrato del tetto degli Appennini, Dalmazio Iacorossi. Racconta la storia del cane-postino, Strappone, e come era il paese 80 anni fa. Castelluccio di Norcia, il tetto degli Appennini, si rifà il look. Si realizzano le nuove fognature di raccolta e convogliamento degli scarichi, nonché l’arredo urbano. I lavori sono già iniziati e procedono di gran lena, perché fra qualche giorno quassù farà pure molto freddo. Si spenderanno complessivamente 4.116.597,19 Euro della comunità europea. I progettisti sono Regione dell’Umbria direzione ambiente, territorio e infrastrutture; ufficio temporaneo completamento ricostruzione e servizio geologico. Tutto il piccolo borgo è stato perforato per la posa in opera di grossi tubi e cavi. Si realizzano l’acquedotto, le fogne, la pavimentazione, le scale d’accesso ai vicoletti interni. Si rifanno il maquillage anche gli angoli più nascosti ma certo non meno suggestivi. Si cablano pure gli impianti elettrici, telefonici e il cavo in fibra ottica.

Insomma, non ci saranno più dispersioni d’acqua dai tubi colabrodo, né intrusioni a cielo aperto d’elementi stonati e anche maleodoranti. Il prossimo anno, quando i lavori saranno ultimati, Castelluccio si presenterà come un caro, affettuoso borgo di montagna. Quasi una piccola Cortina d’Ampezzo dell’Umbria e chi arriverà nell’antico paese dei pastori troverà, come per incanto, una “tela” uscita dalle pennellate di un magico pittore medioevale. Insomma, sarà tutto diverso. Non resterà che contemplarlo, specie al tramonto quando gli ultimi raggi del sole lo colorano di un rosso acceso che via via sfuma fino a naufragare in un fantomatico argento che ammanta la dorsale dei monti Sibillini e il pian Grande. Le ombre della sera però sembrano avvolgere questa distesa prateria con grande rispetto, quasi per non turbare il netto contrasto con i sollevamenti tettonici che hanno dato origine al monte Vettore. E di notte pian Piccolo e pian Perduto, sembrano stringersi attorno a pian Grande, quasi temessero le storie della Sibilla.

I castellucciani plaudono a questi lavori, anche se non manca qualche disagio. “Soldi comunitari spesi bene”, dice un uomo che incontriamo nei pressi della chiesa parrocchiale di S. Maria Assunta, “perché l’acquedotto perdeva più acqua di quanto ne trasportava, mentre dalle vecchie fognature il liquame usciva come da una fontanella in un paio di punti a valle del paese”. Tecnici ed operai lavorano tutti di gran lena alla realizzazione del progetto. Il divieto di transito ai veicoli, consente solo il passaggio a quelli dei residenti. Camioncini ed escavatori girano su un fazzoletto, mentre il sedime stradale è di colore grigio per la cementata che dovrà accogliere la nuova pavimentazione. Chi gira a piedi deve fare attenzione a dove mette i piedi, perché c’è il rischio di inciampare sui “colletti” sporgenti dei tombini. Le case e le stalle, viste da vicino, sono come bambini usciti di scuola, che si danno la mano. Un tempo erano soste e isole di lavoro sulla via e ricordano il lavoro paziente di generazioni.

Dalla balconata in pietra delle mura di cinta e con lo sguardo fisso verso il camposanto, incontriamo Dalmazio Iacorossi, classe 1925. E’ nato da una famiglia di pastori in una di queste case ristrutturate dopo il terremoto del 1979. Dalmazio è stato uno dei primi, se non il primo, a fare le valige e andarsene dal paese 54 anni fa. Ha lavorato una vita nella centrale di Montalto di Castro. D’estate ritorna fra i suoi monti natii. Mostra distintamente i segni del lungo viaggio della vita attraverso gli anni. Esordisce: “Quando ce ne siamo andati, tutti abbiamo detto che non saremmo più ritornati nemmeno da morti. Invece non è così. I castellucciani tornano spesso a respirare l’antica aria domestica e anche per l’ultimo viaggio”. Perché allora quella frase dura e cruda? “Perché è stato sempre un paese abbandonato da tutti –racconta con rabbia- tanto che non abbiamo mai visto un’autorità per stringergli la mano. Solo il vescovo di Spoleto saliva fin quassù a cavalcioni di un mulo. Lo faceva in occasione della cresima dei bambini che erano sempre tanti. Il mulo era l’unico mezzo di collegamento, perchè non esistevano strade. Solo una mulattiera”.

Come si viveva 80 anni fa a Castelluccio? “Si viveva bene, perché c’erano tanti residenti che costituivano un’unica famiglia. Noi ragazzi andavamo a scuola sia il mattino che il pomeriggio, ma d’inverno appena avevamo un minuto di tempo libero ci mettevamo gli sci ai piedi e via per i prati a divertirsi. Allora cadeva parecchia neve, tanto che copriva anche le porte delle case. Con i chiodi ci trastullavamo a scrivere sui lastroni gelati. Di frequente restavamo isolati per parecchio tempo dal resto del mondo”. E se qualcuno si ammalava? “Quando c’era un ammalato grave andavamo a prendere la lettiga attrezzata per il traino a mano "di volata" all’interno della chiesa del Sacramento, oggi sconsacrata. Infine, una cordata di 5 o 6 uomini robusti correva con gli sci fino all’ospedale di Norcia, sfidando il freddo, il vento e la tormenta. Impiegavano dalle 4 alle 5 ore. Anche il postino d’inverno arrivava con gli. Lo precedeva un grosso cane di razza maremmana che trasportava sul dorso due pesanti bisacce piene di corrispondenza. Quando Strappone, questo il nome del vecchio cane, arrivava in paese affondando ad ogni falcata le sue grosse zampe sulla neve fresca, noi ragazzini gli correvamo incontro per fargli festa e lui ricambiava abbaiando e scodinzolando”.

Perché se n’è andato a vent’anni? “Perché quassù, a 1450 metri di quota, il soldo non viaggiava. Adesso invece con le lenticchie e le altre attività legate alla pastorizia è tutto diverso. In quegli anni noi avevamo un quintale di lenticchie. Con mio padre le portavamo a vendere a Norcia. La prima tappa era il portico delle misure, il mercato coperto dei cereali, dove si trovano ancora oggi i recipienti in pietra utilizzati per la stima. Una vita dura, piena di sacrifici. Dopo di me, lentamente ma progressivamente, sono partiti altri giovani e più tardi anche le loro famiglie che si sono sparpagliate tra Norcia e Roma”. Attualmente, d’inverno, quanta gente resta ad abitare a Castelluccio? Ce lo spiega un signore di mezza età, che incontriamo vicino la chiesa parrocchiale. “Circa quindici persone –dice allargando le braccia- perché il resto dei residenti hanno quasi tutti la casa a Norcia. Molti ritornano ad aprile, quando è tempo di seminare la lenticchia, poi si fermano da giugno a settembre”. Ritornano giovani e anziani o solo anziani? “Soprattutto anziani, perchè i giovani sono pochi”. Nel dedalo delle strette vie di Castelluccio incontriamo anche Perla Reggina, intenta a ripulire le lenticchie da eventuali impurità sulla vecchia tavola a barca. Poi le insacca e le vende. Mezzo chilo 4 euro. Pure lei arriva ad aprile per la semina poi si ferma a godersi l’estate. D’inverno vive con la figlia e i nipoti a Castel Ritaldi. “Castelluccio –spiega- vive il suo momento magico soltanto tre mesi l’anno. D’altra parte, è questo il destino di tutti i centri di montagna”.

Eppure la “vocazione turistica” c’è e lo si deve alla bellezza dei luoghi. Qui si possono praticare anche diversi sport: escursionismo, deltaplano, snowshoeing, surviving, arco, mountain bike, bird-watching, orienteering, trekking con i muli. Sul pian Grande, vicino al maneggio, stracolmo di gente che prende l’ultimo sole d’agosto, i temerari del deltaplano noleggiano nel cielo azzurro e planano dolcemente sulla valle. Ascoltiamo la radio gracchiante dell’istruttore della Prodelta, la scuola nazionale di volo libero, che li guida all’atterraggio. Sono 25 anni che organizza i corsi per questi appassionati. Molti sono tedeschi.

Vicino all’abbeveratoio delle pecore, incontriamo un pastore sui 50 anni. Fa un caldo bestiale, ma l’uomo si porta precauzionalmente al seguito il grosso ombrello per mettersi al riparo dal sole e da eventuali acquazzoni estivi. Come va? Sorride: “La terra qui è dura, difficile –esordisce con tono gentile mentre accetta di farsi fotografare- ma c’è l’immersione totale nel respiro della natura”. E’ sufficiente per ripagare una vita di disagi e fatica? “Certo che no e lo dimostra il fatto che a Norcia siamo rimasti soltanto in cinque a fare questo mestiere. Gli altri che s’incontrano sui prati-pascoli arrivano dalle Marche”. Non ci sono più giovani disposti a mettersi in gioco? “La vita del pastore è stata sempre una vita difficile da capire, soprattutto oggi per la mentalità dei giovani tesa alla ricerca di un successo e di un benessere fondato su valori effimeri. Giornate faticose, spese all’aria aperta, senza orari, con il sole o con la pioggia. Si inizia al mattino presto per mungere le bestie, poi si fa ritorno alle prime ombre della sera. Si dorme con un occhio aperto in una roulotte e ci si sveglia al primo abbaiare dei cani, perché il lupo è sempre in agguato”. Un tempo invece i pastori esercitavano il loro rude “fascino” sui propri figli, desiderosi di diventare autonomi, di vivere all’aria parte, guidare il gregge con i fischi e l’aiuto dei cani.

Oggi nessuno resta più incantato da questo mestiere. Negli ovili sono arrivati gli immigrati. Soprattutto macedoni e romeni che hanno una cultura pastorale ancora viva nella loro terra. Sono tutti in regola. Almeno così dicono. Il nero resterebbe fuori, perché hanno paura dei controlli dei carabinieri e della Guardia Forestale. I loro salari raramente superano i settecento euro il mese. Sono impiegati in aziende piccole, a conduzione familiare. E vivono un momento difficile, strette tra norme europee che, da una parte incentivano la crescita delle dimensioni e l’innovazione, mentre dall’altra il cartello delle grandi industrie di trasformazione alimentare punta a mantenere il più basso possibile il prezzo del latte acquistato dagli allevatori.

Gilberto Scalabrini


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sabato 20 settembre 2008

Una storia pulita dentro e bella fuori: la Rocchetta cacciata dal Rio Fergia!




Cronaca della vertenza
Nel video caricato, ci siamo divertiti a descrivere la vertenza del Rio Fergia con un linguaggio sicuramente non troppo formale, arricchito – per così dire – da qualche cadenza o espressione “locale” tipica della nostra regione. Questa scelta può forse creare, a chi umbro non è, qualche piccolo problema di comprensione e quindi risulta doveroso fare un breve resoconto della vicenda in una versione un po’ più ortodossa!

La questione di cui stiamo parlando consiste in un contenzioso molto aspro tra l’azienda delle acque minerali Rocchetta S.p.a. e gli abitanti di una fascia di territorio compresa tra Gualdo Tadino e Nocera Umbra. La storia ha inizio nel 2003, quando la Rocchetta ottiene dal comune di Gualdo un permesso per ricercare l’acqua in un monte della zona, il Monte Penna, e costruisce un pozzo di emungimento sopra la frazione di Corcia. Pochi giorni dopo però, una schiuma biancastra appare sulle acque del Rio Fergia, un fiume le cui sorgenti sono proprio a pochi chilometri dal pozzo. Come si scoprirà più tardi, il pozzo di Corcia e le sorgenti del Rio Fergia sono tra loro comunicanti e la schiuma era dovuta a delle sostanze particolari “tensioattive” che la Rocchetta aveva utilizzato per scavare meglio la terra.

Ai piedi delle fonti del Rio Fergia, sorge un piccolo paese di nome Boschetto, una cui prima particolarità è quella di ricadere sia sotto l’amministrazione di Nocera che sotto quella di Gualdo (l’abitato funge praticamente da confine tra i due comuni). La seconda particolarità è invece quella di avere una popolazione ─ e lo vedremo ─ con una buona dose di “attributi” che in modo coriaceo si oppone a tutti i soprusi che provengono dall’alto! Gli abitanti naturalmente incominciano a preoccuparsi, non solo perché le ricerche della Rocchetta a Corcia non vengono sospese (sebbene nel 2004 un rapporto dell’ ARPA confermasse che il pozzo e il fiume erano effettivamente comunicanti) ma anche perché, in poco tempo, la portata del fiume inizia a calare drasticamente.

La Rocchetta peraltro aveva già avuto a Gualdo un precedente per nulla rassicurante. L’azienda infatti viene considerata la principale artefice del prosciugamento del locale fiume Feo; questo corso d’acqua ha visto nell’ultimo decennio una diminuzione notevole della sua portata e oggi il suo letto è desolatamente secco. La Rocchetta ha utilizzato il Feo fin dal suo arrivo a Gualdo negli anni ’90 e nel solo 2005 vi ha estratto qualcosa come 400 milioni di litri d’acqua (guarda articolo di Luca Martinelli). Per dare un’idea del volume di affari, sempre nel 2005 la Rocchetta ha pagato per le concessioni 50 centesimi di euro ogni mille litri (meno di un cittadino normale che all’epoca ne spendeva 60!). Tenendo conto poi ogni bottiglia da un litro e mezzo veniva rivenduta a 55 centesimi di euro, andatevi a ristudiare le proporzioni e troverete che l’azienda ci ha guadagnato una cifra attorno ai 150 milioni di euro…

Questo capitale andava ad aggiungersi a quello di un’altra importante società nel campo delle acque minerali, la famosa Uliveto. I due marchi fanno capo ad un’unica società, la Cogedi della famiglia De Simone-Niquesa (ecco spiegato il motivo per cui Del Piero e Chiabotto fanno cip cip nelle pubblicità nazionali). La Cogedi – che ha diversi legami finanziari all’estero – costituisce il terzo gruppo delle acque minerali in Italia, venendo dietro solo a Nestlè e San Benedotto. Una posizione dunque assolutamente invidiabile, visto che nel nostro paese il consumo di acqua minerale aumenta costantemente anno dopo anno e gli Italiani ne sono i maggiori consumatori a livello mondiale (con più di 180 litri annui a persona).

La lotta per la difesa del fiume che la gente di Boschetto si apprestava ad intraprendere si preannunciava dunque come molto difficoltosa. C’è comunque da dire che gli abitanti della piccola frazione avevano già mostrato in passato di che pelle erano fatti. Nei primi anni ’90, erano scesi in strada per opporsi alle decisioni che erano state prese nei due capoluoghi comunali. Gualdo e Nocera infatti intendevano spartirsi il Rio Fergia, appropriandosi di un grosso quantitativo di acqua per i rispettivi acquedotti. Non avevano però fatto i conti con i “boschettiani” che si organizzarono nel locale Comitato Rio Fergia e occuparono per oltre trenta mesi le sorgenti del fiume. Ai due comuni non rimase altro che cercare un compromesso, il quale si concretizzò nel Protocollo d’Intesa del 1993 firmato anche dal presidente del Comitato Sauro Vitali. Il documento stabilì che Nocera potesse prelevare una quantità di acqua pari a 28 litri al secondo, mentre Gualdo 8 l/s.

Il Comitato si riformò nel 2003 proprio in seguito allo scavo del pozzo della Rocchetta a Corcia. La situazione tuttavia cominciò a diventare incandescente a partire dal settembre 2006, quando la Regione Umbria deliberò il rilascio di una nuova concessione di acqua minerale nella zona del pozzo di Corcia (tale decisione fu peraltro presa in un periodo in cui l’Umbria stava affrontando una grave crisi idrica e non mancò dunque di surriscaldare ancora di più gli animi). Nello stesso documento, furono fissati i termini dei prelievi all’interno dell’intero bacino: Nocera continuava a mantenere i suoi 20 l/s, la nuova concessionaria (vale a dire Idrea; una società che pur facendo sempre parte della Cogedi rappresentava comunque un soggetto diverso da Rocchetta) ne avrebbe sfruttati 12 (ridotti a 7 nel periodo estivo), mentre Gualdo passava da 8 a 1 l/s. Dunque i 28 l/s prelevabili secondo il Protocollo d’Intesa del 1993 venivano aumentati a 33 l/s. Inoltre, la deliberazione della Regione stabiliva che le utenze di Boschetto ricadenti sotto Gualdo sarebbero state staccate dall’acquedotto alimentato dal Rio Fergia, per essere successivamente collegate con altre fonti di approvvigionamento…In pratica, parte degli abitanti di Boschetto non poteva usare l’acqua del fiume locale perché la Regione (con il comune di Gualdo consenziente) aveva dato la concessione del bacino all’Idrea!

La decisione della Regione venne più tardi confermata anche dagli uffici regionali competenti in tematiche ambientali, con una determina dirigenziale del maggio del 2007. Sempre nel 2007, ma a luglio, il Comune di Gualdo rilasciava il permesso di costruire una condotta di 4 km dal Pozzo Corcia fino agli stabilimenti dell’azienda. All’ Idrea veniva inoltre concessa la possibilità di utilizzare ─ durante la fase di estrazione delle acque ─ i pozzi di emungimento (oltre a quello di Corcia, altri due erano in costruzione nella frazione di Rigàli).

Ciò aumentò ancora di più i malumori all’interno del Comitato, in quanto l’uso di questi impianti veniva considerato un grave pericolo per tutto il circuito idrogeologico della zona. Il pozzo di Corcia era stato scavato a una profondità di 180 metri sotto le falde del Rio Fergia ed è era un po’ come se fosse un enorme buco in cui si disperdeva l’acqua di tutto il bacino idrico. Inoltre alcuni studi dell’Arpa avevano evidenziato che, da quando erano iniziati gli scavi, c’era stato un cambiamento qualitativo delle acque, con un aumento notevole delle quantità di solfati presenti. Tali risultati peraltro sono stati tenuti nascosti per diverso tempo dai dirigenti dell’agenzia e fatti emergere solamente più tardi dal prof. Tulipano, docente ordinario di idrogeologia applicata a La Sapienza di Roma che fu incaricato dal Comune di Nocera di svolgere delle indagini sul bacino.

Il Comitato Rio Fergia non è rimasto naturalmente a guardare impassibile il corso degli eventi ma ha dato vita a tutta una serie di manifestazioni con l’intento di riprendersi il fiume. L’apice della protesta si è avuto nel luglio-agosto del 2007: gli abitanti di Boschetto hanno bloccato simbolicamente la Flaminia il 21 di luglio, hanno fatto venire le televisioni (con le Iene e Riccardo Iacona)…ma soprattutto hanno formato dei presidi a Corcia con i quali hanno bloccato in più occasioni gli operai dell’Idrea mandati per dare inizio ai lavori della condotta e adeguare il pozzo alla concessione. Nel frattempo avevano già presentato diversi ricorsi al TAR dell’Umbria per chiedere l’annullamento di tutte le decisioni prese fino allora. Anche il Comune di Nocera, schierato contro la concessione, presentò un ricorsò.

Furono giorni di tensione palpabile, con reciproci scambi di accuse tra il Comitato e gli esponenti politici. Nell’intervista che abbiamo realizzato con Sauro Vitali, il presidente del Comitato Rio Fergia ─ oltre a ricordare i grandi interessi economici in gioco nella vertenza ─ denuncia come tutte le istituzioni e partiti politici abbiano avuto un atteggiamento di connivenza nei confronti della Rocchetta, trascurando invece l’interesse pubblico dei cittadini. Quest’ultimi si opposero con grande determinazione alle delibere della Regione e del comune di Gualdo. Nell’immaginario collettivo di Boschetto, rimangono nella memoria le campane suonate dal parroco alle tre di notte per avvertire la popolazione dell’arrivo delle ruspe. Il paese intero ─ dai più giovani fino ai pensionati ─ mise in campo tutte le sue forze per salvaguardare il proprio fiume in pericolo...

Nell’agosto del 2007, la prefettura decise di sospendere i lavori dell’Idrea almeno fino a quando non fossero arrivate le valutazioni del Tribunale Amministrativo. Le cinque sentenze del TAR ─ attese per l’autunno del 2007 ─ furono promulgate solo tra maggio e a giugno del 2008. Ma per il Comitato valse sicuramente la pena aspettare! Infatti il TAR accolse buona parte della ragioni esposte dagli enti ricorrenti e sancì l’annullamento delle delibere regionali che rilasciavano la concessione ad Idrea nonché del permesso di costruire la condotta fornito dal comune di Gualdo. Il Tribunale Amministrativo dell’Umbria riconobbe molti punti di criticità, in particolare che:
  • alcuni dei terreni su cui era previsto il passaggio della condotta non erano pubblici ma soggetti ad un uso privato; dunque l’Idrea non aveva nessun titolo per costruirvi l’opera;
  • la commissione edilizia del comune di Gualdo che ha rilasciato i permessi era formata soprattutto da politici e non da tecnici;
  • non era stata fornita alcuna valutazione di compatibilità ambientale del progetto né tantomeno era stato dimostrato che l’opera garantisse il deflusso minimo vitale dell’intero bacino idrico ;
  • non era stato dimostrato che il progetto potesse avere delle ricadute economiche positive per il territorio né tanto meno che la società Idrea avesse i requisiti necessari (economici, patrimoniali, di conoscenze) per sfruttare una concessione come quella di Boschetto.
Le sentenze del TAR segnano sicuramente un punto a favore molto importante per gli abitanti di Boschetto. Tuttavia la vicenda non può ancora dichiararsi conclusa; infatti, da una parte Idrea, Regione Umbria e comune di Gualdo possono ancora ricorrere al Consiglio di Stato; dall’altra il Comitato ha dichiarato che non porrà termine alla sua azione fino a quando non verranno completamente smantellati i pozzi. La vertenza del Rio Fergia non è rimasta confinata alle sole cronache locali ma ha assunto una certa rilevanza anche a livello nazionale ed internazionale. La lotta dei cittadini di Boschetto è stata considerata un simbolo della campagna di ripubblicizzazione dell’acqua, quella campagna cioè che punta a dichiarare l’acqua come un bene pubblico non mercificabile. Più in generale, l’esperienza del Rio Fergia viene presa a modello per tutti i movimenti che si battono per la difesa del territorio e dei beni comuni. E il prossimo gennaio la vertenza approderà addirittura su un palcoscenico mondiale, visto che Sauro Vitali (con altri esponenti del Comitato) è stato invitato a parlare al Forum Mondiale Sociale di Belem (Brasile). E così tutto il mondo saprà di Del Piero e della Chiabotto, dell'uccelletto e della soraccia...che sarà pure pulita dentro, ma tanto bella fuori non mi pare proprio!!!!

Sull'argomento, guarda nel blog anche:

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martedì 16 settembre 2008

"Non c'è futuro senza perdono" di Desmond Tutu



…alla fine pensai che fare giustizia
non significa punire bensì risanare



Come può uno stato che cerca di uscire da una fase turbolenta della propria esistenza, mettersi alle spalle un passato ancora fresco nella memoria collettiva? I libri di storia, nell’appuntare un gran numero di situazioni di tale genere, ci raccontano anche come i periodi di transazione non siano affatto semplice da gestire, ma al contrario siano momenti di estrema delicatezza e con molti problemi da affrontare.

La modalità forse più diffusa per fare i conti con i trascorsi recenti è quella di fare fuori (spesso non solo in senso figurato) coloro che vengono considerati i principali responsabili della fase storica appena superata. Di esempi se ne possono citare a bizzeffe, dai gerarchi nazisti processati a Norimberga, al dittatore rumeno Ceaucescu, oppure il baffuto Saddam Hussein: i vincitori (o presunti tali) impongono la loro giustizia ai criminali che hanno condotto la nazione fino al baratro e che per questo non meritano nessuna pietà. Eliminando in questo modo l’origine del cancro, si crede di poter risanare le ferite aperte di paesi ancora atrofizzati dal dolore e dalla sofferenza. Le cronache dei nostri giorni sulla realtà irachena testimoniano però come questa strategia – lungi dall’essere risolutiva ─ possa addirittura gettare benzina sul fuoco, inasprendo rancori e conflitti che il poco tempo trascorso non può aver sedato.

Un secondo sistema per affrontare siffatte situazioni consiste nel mettere una pietra sopra a quello che è successo. Scurdàmoce 'o passato… recita una vecchia canzone napoletana, un passo che per certi versi sintetizza la filosofia dell’approccio che stiamo analizzando. Calare una coltre di silenzio quasi fingendo che nulla sia avvenuto, concedere l’impunità senza richiedere niente in cambio a coloro che si sono macchiati di gravi crimini, nascondere gli scheletri dentro l’armadio; è il prezzo che si paga per ottenere una pacificazione altrimenti impossibile da raggiungere. È questo un “modello” che mi dicono essere piuttosto diffuso in America Latina, con i vari Pinochet che si assicurano una pensione relativamente tranquilla dopo aver passato una vita a massacrare gente…E’ palese però che il negare l’evidenza dei fatti non è sicuramente il presupposto migliore per iniziare un percorso di giustizia e di riconciliazione tra vittime e i carnefici.

Ma per uscire da un passato oscuro, si possono intraprendere anche delle strade molto particolari. È il caso ad esempio del Sudafrica, che ha deciso di guardare in faccia il periodo più controverso e terribile della sua storia ─ quello del regime dell’apartheid ─ sperimentando una prospettiva veramente innovativa e straordinaria. La terza via scelta dal paese africano è descritta da colui che ne è stato probabilmente il protagonista principale, vale a dire il vescovo della Chiesa Anglicana Desmond Tutu, in un bellissimo libro dal titolo significativo: Non c’è futuro senza perdono. Un’ opera che descrive un cammino affascinante e sorprendente, peraltro risultato decisivo per traghettare il Sudafrica in una nuova fase storica, dopo i decenni bui del razzismo e della segregazione.

Siamo nel 1994; l’odioso regime dell’apartheid è finalmente venuto meno e Nelson Mandela è stato appena eletto presidente sudafricano. Si pone immediatamente la necessità di come affrontare – evitando pericolose degenerazioni in un contesto ancora assai delicato – l’ingombrante passato appena lasciato alle spalle. Non si può dimenticare quello che è successo, ma neanche intraprendere una campagna di giustizia sommaria sui crimini commessi. La fortuna del Sudafrica è però quella di avere dei dirigenti all’altezza della situazione, che capiscono che il nuovo corso deve essere improntato non sul rancore e sulla vendetta ma sulla riconciliazione e la verità. Nasce in questo modo un organismo nuovo, chiamato appunto Commissione per la Verità e la Riconciliazione, che avrà il compito di indagare sui crimini commessi durante il periodo dell’apartheid. La Commissione – guidata da Desmond Tutu – agisce tuttavia secondo un’ottica sui generis che non è quella di semplice punizione dei colpevoli. Il suo compito è invece quello di ristabilire la giustizia restitutiva, un concetto tipico della cultura tradizionale africana per cui fare giustizia significa innanzitutto […] correggere gli squilibri, ricucire le fratture dei rapporti, cercare di riabilitare tanto le vittime quanto i criminali, ai quali va data l’opportunità di reintegrarsi nella comunità che il loro crimine ha offeso. In questo senso, la Commissione intraprende un percorso volto al risanamento delle ferite di tutto il popolo sudafricano, coinvolto nella sua interezza dal morbo orribile dell’ apartheid. Un percorso che vuole dare sollievo tanto alle vittime, colpite da sofferenze indescrivibili, quanto ai carnefici, deviati da un regime perverso a compiere le azioni più deplorevoli.

In tale contesto, si decise che coloro che si erano macchiati di crimini politici potessero fare richiesta di amnistia. La richiesta poteva però avvenire solo a condizioni ben precise, la più importante delle quali era che l’imputato assicurasse una confessione piena e completamente veritiera dei delitti commessi. Questo era il prerequisito fondamentale perché la Commissione potesse accordare l’amnistia: l’immunità giudiziaria in cambio in cambio della verità totale. Come riconosce lo stesso Tutu, tale condizione ha richiesto un grande prezzo alle vittime. In molti casi, costoro hanno visto rilasciati i loro persecutori o quelli dei loro amici e parenti senza che ci fosse alcuna pena materiale da scontare…

Ma qui forse sta la straordinarietà dell’esperienza sudafricana, quello di aver mostrato che il senso di umanità sa andare oltre la materialità delle cose. La Truth and Reconciliation Commission ─ pur con tutti i suoi limiti e carenze ─ ha sostanzialmente assorto ai due compiti per cui era stata istituita, vale a dire quello di ripristinare la giustizia e quello di promuovere un cammino di riconciliazione ed unità. Che ciò sia avvenuto, può sembrare un miracolo…e forse lo è. E’ incredibile infatti come durante le udienze si sia realizzata una convergenza positiva di alcuni fattori psicologici e umanitari di notevole spessore...

Il primo di questi fattori era che, per la prima volta dopo anni, le vittime o i loro parenti avevano la possibilità di parlare pubblicamente dei soprusi subiti, di raccontare la loro storia e trovare finalmente un intero stato che li ascoltasse (tutti i processi erano trasmessi in diretta da radio e televisione). Le udienze pubbliche della Commissione erano l’occasione dove la gente poteva venire a piangere, ad aprire il suo cuore, a liberare l’angoscia che per tanto tempo era stata rinchiusa, ignorata, negata. Tutu evidenzia più volte il potere catartico del parlare e dello sfogo che in molti casi hanno permesso alle persone coinvolte di liberarsi di un fardello che ottenebrava il loro cuore.

Non bisogna dimenticare poi che la confessione dei colpevoli doveva sempre avvenire in presenza delle vittime, nonché delle telecamere che trasmettevano le udienze nell’intero paese. Nel corso del libro, Tutu ci ricorda più volte come sia difficile per una persona esprimere gli aspetti più reconditi della sua intimità. Spesso risulta difficoltoso raccontare le nostre piccole manchevolezze anche alle persone più care, figuriamoci narrare personalmente gli orrori perpetuati davanti alle famiglie delle vittime…Per i carnefici esisteva dunque una pena, molto più sottile di quella materiale, che era quella dell’umiliazione di essere additati alla riprovazione del pubblico. Molti di coloro che venivano messi alla sbarra erano sempre stati considerati fino a quel momento membri rispettabili della società e a volte la rivelazione del delitto giungeva per la prima volta anche per i loro cari, con conseguenze spesso negative per i legami familiari. Per un colpevole dunque, era forse più difficile sostenere una prova come questa piuttosto che finire in galera.

Ma il miracolo più grande si è sicuramente manifestato in una duplice disponibilità che ha investito molti dei protagonisti delle udienze: da una parte i carnefici che si sono dimostrati disposti a chiedere il perdono per i loro crimini, dall’altra le vittime che hanno saputo perdonare. Un esempio dice molto più di mille parole:

La Commissione tenne due udienze sulla strage di Bisho, una delle quali si svolge nella città stessa non lontano dalla scena del massacro. La sala in cui ci eravamo convocati era gremita fino al soffitto di persone che avevano partecipato alla marcia: molte di esse erano rimaste ferite e altre avevano perso un familiare o un amico. L’atmosfera vibrava di tensione […] Fu la volta di alcuni ex ufficiali della Cdf, tra cui un bianco. Quest’ultimo, il colonnello Horst Schobesberger, prese la parola a nome di tutti. Egli ammise che sì, erano stati loro a dare ordine ai soldati di sparare. A quel punto la tensione si poteva tagliare con il coltello. La folla non poteva essere più ostile. Fu allora che l’ufficiale, voltandosi verso il pubblico, lanciò un appello straordinario: “Vi dico che ci dispiace. Vi dico che il peso della strage di Bisho graverà su di noi per tutta la vita. Non ha senso desiderare che questo non sia mai accaduto, perché ormai è accaduto. Però io vi prego, io chiedo in particolare alle vittime, non di dimenticare, non posso chiedere questo, ma di perdonarci, di riaccogliere i soldati nella comunità, di accettarli pienamente, di cercare di comprendere anche le pressioni alle quali erano sottoposti in quel momento. Io posso fare solo questo. Mi dispiace, questo posso dire, mi dispiace”. La folla, che era stata sul punto di linciarli, rispose in un modo del tutto imprevisto: scoppiò in un applauso fragoroso! Incredibile! In un attimo il clima era cambiato […] Nessuno poteva prevedere che ci sarebbe stata quella svolta. Fu come se qualcuno avesse agitato una bacchetta magica capace di trasformare la rabbia e la tensione in quella manifestazione collettiva di accettazione e di perdono. Potevamo solamente inchinarci di fronte a questo ed essere profondamente grati per la capacità della cosiddetta “gente comune” di essere straordinariamente generosa e benigna.

Non aggiungo altro ai miei sproloqui personali su questo grande libro, se non il consiglio spassionato di leggerlo tutto di un fiato. Concludo però con un passo “antropologico”, relativo ad un aspetto peculiare della cultura africana che è risultato secondo Tutu decisivo per il buon esito dell’esperienza della Commissione:

P.S. Per Bossi e Borghezio. Se per caso passate per questo blog, dategli un’occhiata!

[…] La via da noi scelta è profondamente conseguente ad un tratto fondamentale della visione africana del mondo, quella che noi conosciamo con il nome di “ubuntu” nel gruppo linguistico nguni o di “botho” nelle lingue sotho. Che cosa ha spinto tanta gente a scegliere di perdonare invece di reclamare il castigo, ad essere magnanima e disposta alla clemenza invece di dar libero sfogo alla vendetta? Ubuntu è una parola difficile da rendere in lingua occidentale. È una parola che riguarda l’intima essenza dell’uomo. Quando vogliamo lodare gradatamente qualcuno, diciamo: “Yu, u nobuntu” cioè: “Lui ha ubuntu”. Ciò significa che la persona in questione è generosa, accogliente, benevola, sollecita, compassionevole; che condivide quello che ha. È come dire: “La mia umanità è inestricabilmente collegata, esiste di pari passo con la tua”. Facciamo parte della stesso fascio di vita. Noi diciamo: “Una persona è tale attraverso altre persone”. Non ci concepiamo nei termini “penso, dunque sono”, bensì: “Io sono umano perché appartengo, partecipo, condivido”. Una persona che ha ubuntu è aperta e disponibile verso gli altri, riconosce agli altri il loro valore, non si sente minacciato dal fatto che gli altri siano buoni e bravi, perché ha una giusta stima di sé che le deriva dalla coscienza di appartenere ad un insieme più vasto, e quindi si sente sminuita quando gli altri vengono sminuiti o umiliati, quando gli altri vengono torturati o oppressi, o trattati come se fossero inferiori a ciò che sono.
L’armonia, la benevolenza, la solidarietà sono beni preziosi. E per noi il bene più grande è l’armonia sociale. Tutto quello mina, che intacca questo bene a cui aspiriamo deve essere evitato come la peste. La rabbia, il risentimento, la sete di vendetta, la competizione aggressiva per il successo corrodono questo bene. Perdonare non significa soltanto essere altruisti, è il modo migliore di agire nel proprio interesse: tutto ciò che rende gli altri meno umani rende meno umani anche noi. Perdonare rende le persone più flessibili, più capaci di sopravvivere mantenendo la propria umanità malgrado tutti gli sforzi per disumanizzarle”.



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domenica 14 settembre 2008

Mussolini Santo subito!

Negli ultimi giorni guardando la Tv mi è capitato di essere più che mai sconcertato nell’ascoltare notizie di dichiarazioni e fatti relative ad un periodo storicamente rilevante nella storia italiana e occidentale, gli anni dei totalitarismi e delle Seconda Guerra mondiale, su cui a mio giudizio ricercare distinguo o giustificazioni è quanto mai inopportuno.
Inizia il sindaco di Roma, Gianni Alemanno, che in visita a Gerusalemme (non so cosa gli dica la testa..tra tutte le capitali del mondo proprio questa doveva scegliere per dire certe cose!) ha dichiarato che, per lui, “il male assoluto” non fu il fascismo in toto bensì “le leggi razziali volute dal fascismo che ne determinarono la fine politica e culturale”..dimenticando non solo la natura totalitaria del regime fascista, ma anche la complicità attiva con il nazismo nella deportazione di ebrei, e il sacrificio dei vari Matteotti, Gramsci, Gobetti.
Seguono, ancora più sconcertanti, pochi giorni dopo, le dichiarazioni del Ministro La Russa, ministro di quella Repubblica democratica nata dalla Resistenza (per quanto tale momento storico sia suscettibile di un’analisi tutt’altro che semplicistica), che a Roma, in occasione del 65° anniversario della difesa della capitale dalle truppe di occupazione naziste, rende indistintamente omaggio ai soldati della Resistenza e ai soldati di Salò: “Farei un torto alla mia coscienza - esclama infatti La Russa, alla presenza tra gli altri del presidente della Repubblica Giorgio Napolitano - se non ricordassi che altri militari in divisa, come quelli della Rsi, soggettivamente dal loro punto di vista combatterono credendo nella difesa della patria, opponendosi nei mesi successivi allo sbarco degli angloamericani e meritando quindi il rispetto, pur nella differenza di posizioni, di tutti coloro che guardano con obiettività alla storia d’Italia”.
Da ultimo, non certo per importanza, mi è capitato ieri di ascoltare una notizia che parlava della nomina di un vecchietto 95enne a presidente onorario di un concorso di bellezza. Niente di anomalo se non fosse che l’arzillo 95enne è Erich Priebke, capitano delle SS condannato per crimini di guerra per la strage delle Fosse Ardeatine.
Bhè..a questo punto domani ho paura ad accendere la Tv..avranno santificato Mussolini, Stalin o Hitler?


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sabato 13 settembre 2008

Intervista a Sauro Vitali, Comitato per la difesa del Rio Fergia



Alcuni passaggi dell'intervista a Sauro Vitali

La vertenza del Rio Fergia contro gli interessi commerciali dell'Idrea-Rocchetta rappresenta sicuramente una delle battaglie simbolo per la difesa dell'ambiente e la tutela dei beni comuni, non solo in Umbria ma anche a livello nazionale ed internazionale. Qualche giorno fa, io e Marco abbiamo avuto l'occasione di intervistare Sauro Vitali, presidente del Comitato Rio Fergia. Sauro è un'autentica leggenda nella zona tra Nocera Umbra e Gualdo Tadino, per la passione e la determinazione con cui si sta battendo da oltre quindici anni per la difesa del fiume. Il suo carisma è riconosciuto molto oltre i confini regionali e per fine gennaio è stato invitato a parlare al Forum Sociale Mondiale di Belem (in Brasile). Siamo dunque molto contenti di averlo intervistato! A questo proposito, ringraziamo di cuore Samuele Scarponi che, oltre ad averci fatto da guida sui territori della vicenda (peraltro sotto un diluvio mai visto...), ha organizzato per noi l'incontro con Sauro. Grazie Samuele!

Intervista completa

Prima di parlare della vertenza Rio Fergia, una curiosità. Entrando a Boschetto, abbiamo visto che il paese ricade sia sotto il Comune di Nocera Umbra che sotto quello di Gualdo Tadino...
Tutta questa zona tra Boschetto e Gaifana è una zona promiscua che gode anche di una certa autonomia, è come se fosse un comune in mezzo a due comuni. Ad esempio, i terreni collinari e montani sono per statuto di nostro dominio e né Gualdo né Nocera sono titolari di questa zona (questo è stabilito da un trattato del 1480 che poi è citato anche in un’apposita sentenza emessa dal Tar). Quindi ci sono alcuni diritti di uso civico – come il pascolo o il legnatico – che sono promiscui, per cui il Gualdese è autorizzato ad andare sotto Nocera senza pagare alcuna tassa e viceversa. Questi usi civici sono gestiti e amministrati - per conto esclusivamente degli abitanti del posto - dalla Comunanza Agraria di Gaifana, Boschetto, Colle Santa Lucia, etc. Tutta questa fascia tra Gualdo e Nocera è dunque una zona franca e infatti è chiamata proprio zona franca. Storicamente, tutte le guerre insorte tra Gualdesi e Nocerini sono venute fuori dalle insurrezioni del posto. Abbiamo delle documentazioni che attestano tutta una serie di guerriglie già nel 1300, la prima guerra dell’acqua risale al 1371 (naturalmente queste guerre sorgevano sempre per questioni legate all’acqua, perché dove c’è acqua c’è civiltà, c’è economia e quindi benessere). E questo filo conduttore continua anche oggi. E’ qui da noi, che ci troviamo in zona di confine, che Nocera e Gualdo si contendono le risorse. Tra Nocera e Gualdo c’è sempre stata rivalità e a tutt’oggi, quando ci aiuta Gualdo significa che il predatore è Nocera e quando ci aiuta Nocera, che il predatore è Gualdo.

Abbiamo letto che, per concedere l’acqua della zona alla Idrea, avrebbero dovuto addirittura staccare circa 240 famiglie dall’acquedotto pubblico…
245 per l’esattezza e sono le utenze che ricadono sotto il Comune di Gualdo. Questo è un fatto gravissimo e penso che nel mondo non si sia mai verificato. Una proposta del genere non la fa neanche il più sprovveduto dei più sprovveduti: per favorire un’azienda privata, decidi addirittura di staccare gli allacci della popolazione… in una zona poi dove – lo dicono gli studi dell’Arpa e gli studi del prof. Tulipano [professore ordinario di idrogeologia applicata all’ Università La Sapienza di Roma, n.d.r.] ─ di acqua non c’è, ce n’è pochissima. È un sottobacino, non è un bacino vero e proprio. Se vai in profondità, il bacino è unico e va da Scheggia fino alla Valnerina; ma questo è un sottobacino di 8 km2 che i pozzi di ricerca (pozzi P1, P2, P3; non c’è solo quello di Corcia, ma anche altri due a Rigali) hanno perforato. Questi pozzi ricadono all’interno del bacino che alimenta la sorgente Rio Fergia la quale a sua volta alimenta ben tre acquedotti pubblici (Gualdo Tadino, Nocera Umbra e in più parte della città di Fabriano: la sorgente di Capodacqua [che alimenta la città marchigiana, n.d.r] sta nello stesso bacino del Rio Fergia). Questo lo ha dimostrato l’Arpa con i suoi studi (ma comunque già si sapeva perché quando hanno effettuato le perforazioni è fuoriuscita una schiuma biancastra dalla sorgente che altro non era che i tensioattivi usati durante le perforazioni). I lavori sono durati mesi e sicuramente c’è stato inquinamento. Ad un certo punto la polizia provinciale sequestrò l’acqua, fecero dei verbali: però poi tutto rimase nei cassetti perché - come dico io - questo è un affare di stato, dove sono collusi tutti i partiti politici di ogni ordine e grado, di destra, centro, sinistra, di estrema destra, estrema sinistra e Chiesa!

Nella deliberazione della Regione Umbria che dà parere favorevole alla concessione, il prelievo delle acque ─ rispetto a quanto stabilito nel protocollo d’intesa del 1993 ─ viene aumentato di circa 5 litri al secondo (da 28 a 33 l/s). Questa decisione costituisce effettivamente un pericolo per il Rio Fergia?C’è questo sforamento di 4-5 litri, ma in realtà chi determina questo impoverimento delle falde e questo depauperamento dei corsi fluviali, sono i pozzi. Non è la stessa cosa prelevare l’acqua semplicemente per caduta o scavare sotto dei pozzi, con perforazioni lunghe addirittura anche 550 metri di profondità (quello di Corcia è addirittura 200 metri al di sotto della sorgente del Rio Fergia). E poi non è solo una questione di perdita e di calo quantitativo dell’acqua, ma anche qualitativo, perché ci sono dei solfati. I solfati non possono superare i 200 mg al litro, perché altrimenti l’acqua non è più potabile. Oggi già superano i 100 mg. Se tu apri il rubinetto di casa, ti arriva lo zolfo. Quindi i pozzi fanno danno anche da un punto di vista qualitativo il danno. La furberia che adotta il signor Bottini di Perugia [assessore regionale all’ambiente, n.d.r.] ─ quando comincia a fare i conti perché vuole rifarsi al Protocollo d’Intesa ─ è una presa in giro che offende le intelligenze delle persone. Un prelievo naturale non ha nulla a che vedere con un prelievo forzato.

E si diceva di come istituzioni e partiti politici, piuttosto che occuparsi del bene pubblico, pensassero più agli interessi del privato…Ma sono davvero così forti questi interessi?
Questa non è solo una questione localizzata, ma gli interessi in gioco sono altissimi. Se parli con l’ex sindaco di Nocera Petruzzi, ti dice che quasi quotidianamente telefonava gente come Gianni Letta che gli diceva di smetterla e di convincere il Comitato a fare altrettanto. Poi dopo sono subentrati gli altri, con gente del tipo Rutelli, Veltroni e Follini. Su questa questione dell’acqua si intreccia un affarismo colossale e si basa in pratica un’economia a livello di stato. Rocchetta fa parte di quelle 26 aziende italiane che in pratica elargiscono soldi per la pubblicità e determinano un sistema economico molto forte (è la prima delle acque minerali in questo senso). Una sconfitta da parte loro significherebbe il crollo di un sistema economico, basato poi anche sul finanziamento occulto ai partiti. Qui si intrecciano la politica, gli affari e la Chiesa… Il bello poi è che l’acqua se la sono venduta pure partiti come Rifondazione Comunista, portabandiera dei beni comuni. E questo perché sono tutti foraggiati in maniera occulta dalla Rocchetta S.p.a. C’è veramente un grande marcio. Anche le forze dell’ordine (finanza, forestale, carabinieri e polizia) non fanno nulla. Noi li abbiamo chiamati decine di volte, ma non hanno mai fatto niente. Non possono fare nulla, perché l’ordine viene dall’alto. Nei primi anni in cui si insediò la Rocchetta, il giornalista Valerio Anderlini dell’ Eco di Serrasanta di Gualdo Tadino, andò a fare un giro nei luoghi dove c’erano i pozzi insieme ad alcuni dirigenti della Rocchetta. Ad un certo punto, mentre stavano parlando, fuoriescono dai boschi polizia, carabinieri e finanza con i mitra! E allora questo della Rocchetta: “No, no, è amico mio….” Capito? Ecco perché non succede nulla, ecco perché nessuno indaga.

Una domanda relativa ad un’altra questione territoriale, che comunque si ricollega a tutto il discorso che stiamo facendo. Abbiamo saputo che anche Nocera e Gualdo sono interessati dal passaggio del metanodotto Foligno-Sestino, con gravi rischi ambientali per i territori attraversati. Il Comitato Rio Fergia si sta muovendo anche in questa direzione?
Della questione, noi ne siamo stati informati dal Comitato No Tubo di Città di Castello e di Apecchio. Ultimamente non ce ne siamo più occupati, ma adesso con gli amici nostri del Comitato vedremo di rivedere questa situazione. Abbiamo già fatto vedere alla gente del posto le immagini su che cosa era questo tubo. E’ un metro e venti di diametro, dove passa quello sconquassa…Tra l’altro attraversa il fiume Rio Fergia e i lavori devasterebbero le falde acquifere. Questo è un tubo che passa e tira via fino a Bologna, non è poi che ci siano ramificazioni per consentirne la distribuzione sul posto. E’ logico che dobbiamo in qualche modo intervenire, anche perché il sistema è sempre quello, le società sono sempre quelle, le intenzioni sono quelle. Questa fascia appenninica la vogliono devastare; basta vedere le cave che ci sono tra Gualdo e Nocera, sembra tutto bombardato dalle bombe atomiche…

Una domanda di carattere sociale. In che misura la lotta per la difesa del Rio Fergia ha cambiato tra voi del Comitato i rapporti interpersonali e umani?
Io posso parlare per quanto riguarda il comitato direttivo. Siamo 18 persone e da questa vertenza è stata trovata una coscienza collettiva che sta al di sopra della somma delle coscienze individuali. Per raggiungere l’obiettivo, ci siamo convogliati in una coscienza unica, per cui anche su altre questioni ─ magari a cena o a ballare ─ si va insieme con queste persone. E quindi è una cosa positiva. Se siamo in cinque, non è che siamo cinque coscienze separate; la coscienza collettiva è molto superiore alle cinque coscienze messe assieme come semplice sommatoria. Questo mi ha insegnato molte cose, mi ha aperto molto gli orizzonti; e ci ha aiutato molto nella nostra azione, perché noi facciamo le cose concrete. Quando noi siamo andati ad occupare pacificamente i pozzi a Corcia, eravamo 250 e abbiamo dormito nei boschi. Il parroco ha suonato le campane alle 3:40 di notte e ci ha svegliato tutti, tutti ci siamo precipitati lì. Nel ’90-’93 [ prima della firma del Protocollo d’intesa, n.d.r. ], abbiamo addirittura respinto 120 celerini…in maniera pacifica, però da lì noi non ci muovavamo. Il motto mio è: “Dovranno passare sopra i nostri cadaveri”. E tutti rispettano questa cosa, proprio perché c’è questa coscienza collettiva.

E per concludere, cosa possiamo aggiungere?
Di cose ne potrei dire tantissime, ma mi fermo qui perché è inutile che sto a spiegare che l’acqua è un bene inalienabile, l’acqua è di tutti, non è mercificabile. Per me queste cose sono superate da quando è sorto l’uomo, penso che è la prima cosa che ha pensato. E’ inutile che stiamo a ripeterla, è un’assurdità sui generis, nel vero senso della parola. E noi non è che ci fermiamo, non andiamo in ferie, siamo vivi e vegeti…chiudessero i pozzi perché sennò scoppia la terza guerra mondiale!


Sull'argomento, guarda nel blog anche:


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giovedì 11 settembre 2008

9/11: un'eredità molto pesante

Le interessanti considerazioni esposte da TheEye nel precedente post riflettono sicuramente una necessità generale di avere risposte sull'Evento per eccellenza del nuovo millennio. Nello stesso articolo, vi è una ferma (nonchè - per quanto mi riguarda – completamente condivisibile) condanna alla gestione politica attuata dal governo americano, la quale non ha fatto altro che gettare il pianeta in un opprimente clima di terrore, devastazione ed insicurezza. Da buon "saggio", TheEye non si è sbilanciato troppo sulle responsabilità degli attentati del 9/11, parlando genericamente di mille dubbi, mille domande sulle dinamiche e su aspetti incongruenti [che] non ancora [hanno] trovato risposte chiare. Il sottoscritto in realtà – pur ammettendo l’impossibilità di avere certezze in situazioni di questo genere – “parteggia” per una visione degli eventi che non si farà fatica a definire complottista, faziosa e antipatriottica (ma rispetto a quest’ultima colpa, posso sempre sostenere di non aver mai posseduto un passaporto americano)…

Proprio questa mattina, nel guardare alcuni trasmissioni televisivi, ho avuto come la sensazione che l'interesse dei media per gli attentati alle Torri Gemelli sia scemato, affievolito. I programmi in TV continuano a parlarne - è vero - ma con certo distacco, come se fosse lontano nel tempo e di importanza irrilevante nella comprensione della storia contemporanea. Mi sembra quasi che ne se voglia distogliere l’attenzione, spegnerne le luci della ribalta: in fin dei conti, sappiamo tutti perché le torri sono crollate: l’Islam, da perfetta religione immorale qual è, ha portato nell’ Occidente intero la sua sporca jihad, colpendo il simbolo della magnificenza americana. Che bisogno c’è di indagare? Come vi permettete di contestare coloro che ci difendono dalle forze del male? E perché tanta pena se una bomba – che è pur sempre una creazione intelligente – finisce in qualche mercato di Bagdad o in qualche scuola remota di un quartiere periferico di Kabul? Sono nostri nemici, do you remember?

E se invece le risposte fossero altre? E la verità fosse molto più crudele di quella già terribile che ci hanno propinato fino ad ora? Non è superfluo citare solo alcune delle crepe createsi prima, durante e dopo gli attentati e che alimentano i mille dubbi su questa realtà certa e incontestabile:
  1. il rapporto Rebuilding America’s Defenses, redatto nell’anno 2000 (quindi prima degli attentati) e a cui hanno aderito membri influenti dell’attuale amministrazione americana (come Cheney, Rumsfeld e Wolfowitz). Oltre a sostenere la necessità da parte dell’America di preservare ed estendere la sua posizione di leadership globale (tramite anche un diffuso ricorso alle forze armate), il rapporto contiene affermazioni emblematiche come le seguenti:

    • while the unresolved conflict in Iraq provides the immediate justification [for U.S. military presence], the need for a substantial American force presence in the Gulf transcends the issue of the regime of Saddam Hussein (mentre il conflitto irrisolto in Iraq fornisce un'immediata giustificazione [per la presenza militare USA], la necessità di una presenza sostanziale delle forze americane nel Golfo trascende la questione del regime di Saddam Hussein);

    • the process of transformation, even if it brings revolutionary change, is likely to be a long one, absent some catastrophic and catalyzing event – like a new Pearl Harbor (il processo di trasformazione, anche se porterà un cambiamento rivoluzionario, sarà probabilmente lungo, a meno che non intervenga un evento catastrofico e catalizzatore come una nuova Pearl Harbor);

  2. i crolli anomali delle due torri (comunque progettate per resistere ad un attacco aereo), come se fossero avvenute per demolizione controllata; la quasi totale mancanza di prove audio-visive provenienti dal Pentagono, in teoria il posto più sorvegliato del mondo; il completo black out del sistema di difesa aerea americano, sicuramente il più evoluto del pianeta e che avrebbe dovuto fermare gli aerei prima che andassero a bersaglio; l’incredibile precisione dei dirottatori che si mettono a condurre apparecchi sofisticatissimi e molto difficili da guidare, avendo solo – sempre a detta dei media – il brevetto per aerei di piccola dimensione;

  3. la rapida decisione di Bush e la sua cricca di spostare in Iraq il grosso del contingente militare americano impegnato in Afganistan, sebbene in quest’ultimo paese si fosse ancora lontani da un completa pacificazione e soprattutto Mr. Bin Laden e il fido Mullah Omar non fossero mai stati catturati.
Facendo parte della schiera di mezzi bifolchi che abitano un paese sperduto della lontana Italia, non posso certo mettermi a sentenziare sulle vicende americane. Né tanto meno potrò mai affermare la mia sicurezza al 100% sulla fatidica affermazione: l’amministrazione Bush sapeva – e forse addirittura ha organizzato – gli attentati terroristici del 11 settembre 2001. Tuttavia non si può fare a meno di notare la funzionalità degli eventi agli interessi del governo repubblicano. Come gli attentati abbiano facilitato la creazione di un clima favorevole perché si potessero iniziare delle azioni di guerra in Medio Oriente (ed è notorio il sostegno della lobby americana dell’industria bellica all’amministrazione Bush). Come la guerra in Iraq abbia significato un ribaltamento radicale del controllo dei pozzi petroliferi locali, che il birichino Saddam stava per regalare a quegli ingordi di Cinesi…e che ora invece saranno in mano - così come tutto l’apparato di ricostruzione del disgraziato paese mediorientale - ad amici sicuri e di comprovata fedeltà. Come gli attentati abbiano in fin dei conti distolto l’attenzione da una situazione economica di stagnazione e trasformato in un amen il malcontento che la popolazione provava verso l’amministrazione in una fiducia incondizionata verso il Comandante in capo…

Sette anni sono passati, forse ancora non sufficienti per avere la necessaria lucidità sui fatti; ma allo stesso tempo neanche pochi per stilare un primo bilancio provvisorio. 9/11: quale eredità? si chiedeva TheEye...e io credo che sia un’eredità pesante. Non solo per un “mero” interesse economico (visto che il prezzo del petrolio – e di conseguenza tutto il resto – è schizzato alle stelle) che comunque rende la nostra esistenza sicuramente più complicata rispetto a prima...ma anche e soprattutto da un punto di vista culturale e sociale. È chiaro che con gli attentati e le successive guerre si sono di molto deteriorate le possibilità d’incontro con la civiltà islamica e le culture non occidentali in genere, venendo meno il necessario rapporto di fiducia reciproco. Quanto le vicende del 9/11 hanno influito sul recente clima di sospetto (guai definirlo “razzismo”) verso gli stranieri in Italia? In che misura le bombe di Kabul e di Bagdad, oltre a strade, ponti ed edifici, hanno mandato in mille pezzi quella volontà condivisa che i popoli spontaneamente hanno di vivere in pace?

E ancora, quanto le due guerre ci hanno distolto dalle reali questioni che dovrebbero stare sui tavoli di chi ci governa? Se invece di pensare a risolvere i problemi dell’inquinamento, della povertà, della gestione delle risorse e delle gravi ingiustizie sociali che oggi imperano nel mondo, si individuano le priorità nella lotta al terrorismo e nella costruzione dello scudo spaziale...forse è il segnale che la retta via è ancora lontana dall’essere intrapresa..



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9/11: quale eredità?

Sono passati 7 anni dagli attentati dell’11 settembre 2001. Mille dubbi, mille domande sulle dinamiche e su aspetti incongruenti non ancora trovato risposte chiare. Resta il fatto che l’11 settembre 2001 il mondo si fermò attonito davanti a immagini mai viste prima; per la prima volta una realtà di orrore puro entrava nelle case, negli occhi, nei cuori di miliardi di persone. Gli effetti di quel disastro sono ancora oggi sotto gli occhi di tutti. L’11 settembre rappresenta infatti la data fondamentale a cui si ricorre per spiegare gli ultimi 7 anni di storia dell’umanità. 7 anni segnati dalla lotta al terrorismo. Una lotta dalla quale le 2974 vittime dell’11 settembre e il mondo intero aspettano ancora risposte.
La strategia di lotta al terrorismo voluta dal comandante in capo George W. Bush lascia infatti più interrogativi che risposte chiare..e soprattutto lascia sul campo più vittime innocenti che colpevoli.
La scelta di combattere il terrorismo con la guerra preventiva, infatti, non solo ha rappresentato un costo sociale (in vittime tra i militari) ed economico (la guerra costa..e ne paga le conseguenze il mondo intero dipendente dall’economia USA) rilevante per gli stessi USA, ma ha solo minimamente intaccato la potenza economica e militare del terrorismo, che paradossalmente ne esce rafforzato.
Combattere il terrorismo con altre forme di terrorismo (bombe intelligenti sui bambini, Guantanamo, Abu Ghraib), criminalizzare indiscriminatamente il mondo islamico tutto, decretare una non giustificata superiore etica e morale della cultura occidentale, sventolare la bandiera della democrazia per giustificare guerre che con la lotta al terrorismo non hanno nulla a cha fare, porta solo ad una radicalizzazione estrema nello scontro tra civiltà, la quale ha l’unico e solo risultato di portare sempre più nuovi consensi verso forme di terrorismo, visto come unica risposta efficace alla guerra.
E’ evidente che in questo caso il fine non può giustificare i mezzi. Combattere il terrorismo parte in primo luogo dalla definizione che si vuole attribuire al terrorismo stesso: parlare di Stati Canaglia per giustificare iniziative militari e di politica estera non ha nulla a cha fare con il terrorismo, nasconde infatti evidenti interessi economici e geopolitici. In secondo luogo la lotta al terrorismo solo ed esclusivamente con la forza militare si è dimostrata perdente. Non si può infatti combattere il terrorismo senza prima porre su un piano paritario cultura occidentale e cultura islamica: la conoscenza, il dialogo, una cooperazione economica e sociale con il mondo arabo sono infatti un fondamento imprescindibile per poter sconfiggere il terrorismo.


Sull'argomento, guarda nel blog anche il post 9/11: un'eredità molto pesante .


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martedì 9 settembre 2008

Amazzonia: saccheggio e rivolta

Pubblicato dal blog di Padre Dario


In tanti stanno parlando e scrivendo sull’Amazzonia. Eppure siamo convinti che quello che abbiamo da dirvi ha ancora sapore, perché scritto da una terra che era Amazzonia e non lo è piú. Siamo una comunitá missionaria comboniana che è venuta a cercare questi posti, sfidata dalla violenza silenziosa della devastazione, che parla con spazi immensi di niente: solo terra, terra, terra… per chi? Per quale progetto di sviluppo?

Vi scriviamo da Açailândia, in Maranhão, Brasile. Il nome della nostra cittá significa ‘la terra dell’açaí’, un frutto rosso sangue che è stato risucchiato via dal disboscamento. La regione della nostra comunitá si chiamava Piquiá, era il nome di un’altro frutto; pochi anni fa l’hanno ribattezzato Pequiá, acronimo che sta per ‘Polo Petrol-Químico de Açailândia’. Nei nomi, i destini delle cose.

Ora l’Amazzonia è lontana, anche per noi. Qui siamo quello che un giorno altri, alcune centinaia di kilometri piú all’interno, potrebbero diventare: deserto.
Deserto verde, certo: monoculture di brachiaria, che è l’erba dei pascoli immensi nei latifondi. O di eucalipto, la ‘tenda verde’ per nascondere i forni di produzione del carbone. Usavano eucalipto per bonificare le paludi del Lazio; oggi in Maranhão abbiamo piantagioni di questa specie con centinaia di milioni (!) di alberi, cresciuti in suoli diserbati dal concime chimico: a breve le falde acquifere rischiano di esaurirsi, facendoci passare dal deserto verde alla steppa.

Açailândia secondo noi è un paradigma, una strofa della storia dello sviluppo in Brasile che bisogna imparare tutti a memoria… per evitare di ripeterla in altri racconti. Non è per questo, peró, che la nostra cittá ha scelto il monumento-simbolo al suo ingresso: due enormi tronchi di alberi nativi, uno incassato nell’altro a formare un ‘tau’ che inneggia al passato delle 60 grandi segherie della zona. Memoria che lo sviluppo è passato di qui, secondo alcuni; monumento ai caduti, secondo altri. Per entrambi i gruppi, resta il fatto che le segherie hanno mangiato legna fino a dieci anni fa senza lasciare nemmeno le briciole; poi si sono tutte trasferite in Pará, piú a nord, lasciandoci solo… la segatura! Cosí siamo una cittá-simbolo: orgoglio del Maranhão, secondo municipio piú ricco nel nostro Stato, modello efficace della crescita… ma anche luogo del delitto in cui è ancora possibile scovare le tracce di tutti i responsabili della devastazione. Andiamo a conoscerli.

La Estrada de Ferro Carajás é una delle maggiori ferrovie mai costruite: 892 kilometri per collegare il piú ricco giacimento di ferro del mondo (Carajás) a uno dei principali porti commerciali dell’America Latina: São Luís. Ci passano quotidianamente 12 treni di 330 vagoni e 4 locomotive, carichi di minerali: nel solo 2005 il guadagno netto della ferrovia è stato di piú di 200 milioni di dollari. Senza calcolare che oggi il minerale di ferro imbarca a São Luís al prezzo di 50 dollari alla tonnellata e viene riscaricato in Cina a 140 dollari. La stessa impresa che estrae il minerale si occupa del suo trasporto, occasione per altri guadagni massicci: state conoscendo la seconda compagnia mineraria del mondo, Vale do Rio Doce. È questo colosso il grande responsabile di molti movimenti economici qui in Maranhão e nel Pará: una compagnia con 35 mila impiegati, 10 mila domande di lavoro nella sola zona dei giacimenti e una esternalizzazione ad altre aziende del 90% della mano d’opera locale. Fa capo alla compagnia Vale do Rio Doce lo sfruttamento complessivo di questa fonte di ricchezza, nei suoi diversi passaggi: il ciclo di estrazione del minerale di ferro, la fusione nelle industrie siderurgiche locali senza nessun tipo di filtro né controllo ambientale, il consumo di carbone per alimentare gli altiforni, la devastazione della foresta vergine (fino a qualche anno fa) per ottenere carbone vegetale e le piantagioni massicce di eucalipto (da pochi anni) per sostituire la foresta che c’era prima. Il “Programma Grande Carajas”, che ha innestato la ferrovia in queste terre per ‘portarvi lo sviluppo’, è stato fin dall’inizio pilotato dall’esterno: le imprese multinazionali durante il regime militare erano le uniche ad avere accesso ad informazioni privilegiate sulla ricchezza di queste terre. Grandi oligopoli giapponesi e statunitensi, alleati ai generali di fine dittatura, si sono spartiti nel lontano 1978 la terra e le opportunitá. La compagnia Vale do Rio Doce all’inizio è stata anche pubblica, ma dal 1997 è tornata privato bottino degli investitori internazionali. Cosí, ogni giorno, il nostro popolo maranhense affacciato alla finestra della sua baracca vede passarsi sotto il naso ricchezze enormi a cui non potrá avere il minimo accesso.

Lo sfruttamento minerario è solo una tappa della grande sequenza dello sviluppo: un anello di cui non si riconosce piú l’inizio. Latifondo, disboscamento per produrre, allevare o ricavare carbone, incendi costanti per ripulire grandi aree improduttive da destinare a pascoli, monocultura della soia e dell’eucalipto, industrie siderurgiche, camion...La violenza ambientale è evidente e innegabile, tanto che la compagnia si è subito prodigata in operazioni mediatiche: poca preservazione ambientale e molta divulgazione della sua preoccupazione per la natura. Nel linguaggio degli affari, si chiama ‘greenwashing’: Una sorta di lavaggio in verde della coscienza davanti all’opinione pubblica. La compagnia ha annunciato che solo nel 2008 investirá 260 milioni di dollari per la preservazione dell’ambiente… eppure continua ad essere il gruppo minerario con piú multe ambientali in Brasile! Per due volte ufficialmente Vale do Rio Doce ha dichiarato di non rifornire minerale di ferro alle industrie siderurgiche che ancora stessero tagliando legna direttamente dalla foresta. Ottima intenzione, ma giá questo bisogno di rinnovare pubblicamente l’impegno fa sospettare che la prima volta non si sia riusciti a mantenerlo…

C’è poca trasparenza nelle operazioni ambientali della compagnia. Quello che si riesce a vedere, sempre e comunque, sono le 14 industrie siderurgiche lungo la ferrovia, costruite a ridosso delle case della nostra gente (che era lí da almeno 20 anni prima). Ne stiamo aspettando altre due qui vicino e una grande acciaieria ad Açailândia, cittá che non ha ancora imparato a tenersi in piedi sotto il peso della produzione del ferro. Il sistema di produzione energetica è pericolosamente inquinante (come nel caso di Barcarena, Pará, con una futura centrale a carbone importata da oltreoceano!) o devastante (come nel caso della grande diga di Tucuruí, che -lunga 11 km- ha coperto 2.430 km² di foresta e terre indigene).

Il dolore che questo sistema provoca non è solo per la foresta, ma per tutta la vita che vi si incontra: le popolazioni indigene, ad esempio, sono spesso vittime inconsapevoli del progresso. Quasi sempre in un silenzio collettivo di complicità. Ogni tanto, come nel luglio scorso, appaiono piccoli segni di riscatto: il popolo indigeno Krenak, in Minas Gerais, ha ottenuto un’indennizzazione di quasi 8 milioni di dollari per danni morali collettivi, grazie ad un’azione sostenuta dal Ministero Pubblico Federale. Ad Ourilândia (Pará), in una delle zone di assentamentos dove vivono i piccoli produttori rurali, lo Stato brasiliano ha avuto il coraggio di processare la compagnia Vale do Rio Doce per illegalità nell’estrazione del nichel. In maggio 2008 il Tribunale Permanente dei Popoli ha condannato la compagnia per crimini ambientali e violazione dei diritti dei lavoratori e dei diritti umani nella regione di Sepetiba (Rio de Janeiro).

È su queste sintonie che dobbiamo muoverci, per scrivere frammenti di storia che escano dagli spartiti di chi possiede gli strumenti di potere. Oggi sembra che le uniche proposte redditizie siano il latifondo, la monocultura o l’agribusiness. Ma chi conosce la ‘nostra’ gente crede ancora possibile, malgrado tutto, scommettere sulla produzione familiare, su progetti di piccole dimensioni: ben accompagnati, seguiti per un numero garantito di anni, magari finanziati proprio dalla multinazionale che qui in Brasile sta guadagnando di piú dalla terra e dalla foresta.

È con questo sogno che una rete di enti locali del nord del Brasile si sta stringendo sempre di piú: oltre a noi Missionari Comboniani, si sono riuniti Fórum Carajás, Sociedade Maranhense dos Direitos Humanos, Central Única dos Trabalhadores (Maranhão), Cáritas (Maranhão), Sindicato dos Ferroviários de Pará-Maranhão-Tocantins, Fórum Amazônia Oriental, Associação Juízes para a Democrazia e vari altri gruppi. Da fine 2007 è nata una campagna, chiamata “Justiça nos Trilhos” (Sui binari della Giustizia) che sta articolando tutte le realtá coinvolte dalla compagnia Vale do Rio Doce nel corridoio di Carajás con altri gruppi di vari paesi del mondo che vivono le stesse contraddizioni. Il primo appuntamento importante sará il Forum Sociale Mondiale (FSM), dove la campagna “Sui binari della Giustizia” presenterá un seminario internazionale con la partecipazione di Marina Silva, ex ministra dell’ambiente, vari attivisti locali della regione di Carajás e rappresentanti di movimenti di altre parti del mondo. Fino al FSM (e molto oltre) la campagna continuerá a studiare l’impatto ambientale di Vale do Rio Doce e del modello di sviluppo oggi indiscusso qui in Brasile.

L’obiettivo della campagna è triplice: ottenere indennizzazioni per tutte le violazioni commesse da Vale do Rio Doce nel corridoio della ferrovia, forzare le operazioni di compensazione ambientale che sono state assunte come impegno, ristabilire un fondo di sviluppo della regione intera, a quota fissa annuale proporzionale ai guadagni della compagnia, gestito da un consorzio di municipi e movimenti sociali locali. Il treno della campagna sta giá correndo, tanto lanciato quanto quelli della multinazionale. Giá il fatto di essersi incontrati ‘sui binari’ in gruppi tanto diversi è un segno di speranza e organizzazione popolare, che forse puó ispirare anche altri movimenti, in altri luoghi. A chi ci legge chiediamo solidarietà e collaborazione: abbiamo visto altre volte quanto le multinazionali siano sensibili all’opinione pubblica internazionale; saliamo insieme, dunque, sui binari della giustizia!



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domenica 7 settembre 2008

ABBRACCIANDO L'INFEDELE - Behzad Yaghmaian-


“La guardia di frontiera alla stazione ferroviaria sapeva quel po’ di inglese che bastava per esigere una bustarella. Se volevo risalire sul treno e attraversare il confine tra la Turchia e la Grecia, avrei dovuto pagare.” Queste sono le prime parole di Behzad Yaghmaian, professore di Economia al Ramapo College, nel New Jersey. Il suo passaporto iraniano gli impediva di fare una “scappatella” ad Atene per visitarne i monumenti, come un qualunque turista europeo o americano. Behzad vive negli Stati Uniti, ha una vita agiata e una condizione sociale rispettata. Eppure le sue origini fanno sì che una guardia ferroviaria si senta legittimata ad estorcergli una bustarella in cambio di un viaggio in treno per Atene.
Behzad riceverà in seguito un passaporto statunitense. Avrà così accesso ad una maggiore libertà di movimento, e sfrutterà questa libertà per ripercorrere le tracce dei migranti che, per motivi diversi, si ritrovano tutti sulla stessa strada pericolosa e accidentata che porta in Occidente.
La sua intenzione è quella di raccogliere testimonianze di uomini e donne in fuga, indagare sulla causa della loro partenza, salvare le loro storie dall’anonimato. Quello che ne viene è un libro prezioso, sopratutto grazie alla lucidità di Behzad, che con naturalezza e determinazione entra a far parte del mondo dei migranti, vivendo con loro, stringendo solide amicizie e tutta una rete di contatti che lo porteranno a conoscere le storie di molte persone costrette a lasciare la propria patria per cercare un’altra casa da qualche altra parte nel mondo.
Con una macchina fotografica e un registratore, Behzad comincia la sua ricerca di storie da Istanbul, punto di partenza per molti uomini e donne provenienti dal Medio Oriente e dall’Africa, che da lì scelgono le tappe successive del loro esodo e si organizzano per proseguire. Seguendo le tracce dei migranti, Behzad andrà ad Edirne (città turca al confine con l’Unione Europea), Sofia, Atene, Patrasso, Parigi, Calais e Londra… diventerà confidente e amico di molti migranti, incontrerà molte persone disposte ad aiutarlo nella sua ricerca e vivrà a contatto con la realtà di coloro che vivono in viaggio, nella speranza di raggiungere un posto sicuro e tranquillo dove farsi una vera vita.
Behzad incontrerà il cammino di militanti curdi fuggiti dall’Iraq durante la persecuzione di Saddam Hussein, afgani scappati dai talebani, dai vari signori della guerra o dalla truppa d’occupazione statunitense. Iraniani fuggiti dalla Repubblica Islamica, donne che cercano in Europa di farsi una vita lontana dall’estremismo religioso e dai suoi dettami, uomini che fuggono in cerca di lavoro, giovani che partono alla ricerca di nuove opportunità o che semplicemente scappano dalla disperazione e dalla droga, angolani che fuggono dalla povertà che ha seguito la guerra civile, madri e padri che cercano di mettere al riparo i propri figli dalla violenza. Durante il cammino sono molti quelli che si perdono, che si stabiliscono in un paese vivendo in clandestinità, che si guadagnano da vivere lavorando in nero, diventando venditori ambulanti o in caso di estrema necessità, mendicanti. Altri proseguono il viaggio, confrontandosi con i trafficanti di uomini, con la violenza della polizia, con i centri di detenzione, con il rischio di attraversare di nascosto il mare o le montagne. Quasi tutti provano prima a chiedere l’asilo, ma la lentezza della burocrazia e l’altissimo numero di domande di asilo respinte spingono la maggior parte a proseguire il viaggio in Europa da clandestini. Altri ancora cadono nel baratro della droga, diventando piccoli spacciatori o tossicodipendenti. Tutti hanno in comune il fatto di cercare qualcosa e di lottare per ottenere un po’ di rispetto e di dignità.
Un libro sincero, privo di ogni retorica, che va dritto al punto e che colpisce con forza i pregiudizi snodandosi in un intricato mondo clandestino di cui si sa poco e di cui si sparla troppo.

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Polveri e rumore: azienda di cementi a Ferriera


TORGIANO – Polvere nell’aria, rumore, annosi disagi. Problemi di ardua soluzione,questioni che riguardano molte famiglie e che si trascinano da lungo tempo. E’ il caso dell’azienda di Ferriera, costituita da impianti produttori di conglomerato cementizio.
“Il 15 maggio 2007 c’è stata la sentenza del giudice Massimo Ricciarelli. L’azienda ‘Calcestruzzi Magione’ ha dovuto corrispondere risarcimenti di poche migliaia di euro ad alcune famiglie – spiegano alcuni residenti di Ferriera – va ricordato che il titolare dell’azienda ‘Calcestruzzi Magione’, Mario Gradassi, era imputato per ‘non osservanza delle prescrizioni imposte dall’autorità competente’. Abbiamo ottenuto qualcosa? Quasi niente, purtroppo”. I cittadini di Ferriera, alcuni riunitisi in un ‘comitato’, aggiungono che negli anni scorsi era stato prescritto alla ditta torgianese di adottare idonee barriere frangivento e di installare manichette e spruzzatori per l’umidificazione dei cumuli dei piazzali. Era stato inoltre imposto alla ditta di arretrare la propria recinzione, in modo da ‘consentire un allargamento della sede stradale’, e l’abbattimento di una siepe costituita da cipressi, che fino ad allora ‘aveva svolto la funzione di barriera’ – recita la sentenza del maggio scorso. In conseguenza, però, di una ‘più intensa utilizzazione dell’impianto e della mancanza di quella barriera’, prosegue la sentenza, i proprietari delle abitazioni poste in prossimità della strada provinciale avevano cominciato ad avvertire notevoli disagi dipendenti dalla ‘sempre più massiccia diffusione di polveri – continua il testo della sentenza - Insorgenza di allergie, difficoltà a stare all’aperto nel proprio giardino’. “Abbiamo perciò presentato un esposto. L’Arpa venne a fare dei sopralluoghi già nel luglio e nell’agosto 2004 – aggiungono i membri del ‘comitato’ di Ferriera – In tali occasioni fu rilevato che la ditta aveva omesso di installare sia la barriera frangivento sia l’impianto di umidificazione”. La sentenza sottolinea il fatto che un impianto del genere esisteva, ma ‘si trovava inutilizzato ed inutilizzabile sotto il manto che ricopriva il piazzale’.
La ‘Calcestruzzi Magione’ si sarebbe messa in regola alla fine del 2004, secondo alcuni testi. La sentenza del giudice Ricciarelli si conclude però rimarcando che la colpa dell’imputato “fino al novembre-dicembre 2004 è di omissione all’ottemperanza nel senso richiesto” – recita la sentenza. “Noi non abbiamo però riscontrato miglioramenti nella qualità dell’aria. Inoltre il rumore prodotto dall’impresa continua a superare i 60 decibel previsti per legge, arrivando perfino a 70 – aggiungono i residenti del borgo– senza togliere che il 6 agosto 2003 l’allora sindaco di Torgiano Stefano Fodra firmò un’ordinanza che prevedeva l’installazione di pannelli fono-assorbenti entro 60 giorni. Pannelli ‘utili a ridurre il livello di rumorosità prodotto dalle lavorazioni dell’azienda locale’ – recitava l’ordinanza. Ora i cittadini della frazione torgianese chiedono “agli assessori competenti ed al sindaco torgianesi cosa intendono affermare in merito” all’ordinanza sopra citata ed al ‘caso-calcestruzzi’ in generale.

Michele Baldoni


Sulla vicenda, guarda sul blog il video I calcestruzzi di Ferriera.


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sabato 6 settembre 2008

Riflessione di Padre Ottavio Raimondo sullo stato attuale dell' informazione

Riportiamo parte di una interessante riflessione di Padre Ottavio Raimondi sul tema dell'informazione (29 Gennaio 2008)

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INFORMATI DISINFORMATI INGANNATI

Se vivere è informarsi e conoscere, dobbiamo dire che esistono conoscenze che sono inerenti, istintive o innate. Per esempio, tutti gli esseri nascono sapendo respirare. Fin dall'inizio s'impara a mangiare e a bere… Altre conoscenze vengono apprese con il tempo e necessitano di essere elaborate. Attraverso l'informazione l'essere umano può vivere meglio e scoprire il senso della vita. Quindi se è importante vivere è altrettanto importante scoprire perché vivere. Se è importante informarsi è altrettanto importante scoprire perché informarsi. È questo il punto su cui voglio soffermarmi (...)
  1. Si parla oggi tanto di mondo globale. Ma quanto sia ingannatrice questa espressione lo si può vedere anzitutto proprio nel campo dell'informazione. Chi ha in mano l'informazione? Con quali scopi è usata? Quali effetti produce? Sono queste le domande che dobbiamo farci per capire questo nostro mondo e il suo futuro.
  2. Tutti i grandi mezzi di comunicazione sociale sono in mano al Nord del mondo; all'interno del nord del mondo, a parte qualche eccezione, sono in mano ai poteri economici. I poteri economici, poi, proprio attraverso i grandi mezzi di informazione controllano i poteri politici. Fa eccezione, si dice, il mondo di Internet: si prospetta, sempre si dice, una grande rivoluzione, proprio per la possibilità di comunicazione diretta, perfino interpersonale, che Internet consente. C'è in questo una parte di verità e va sfruttata adeguatamente. Ma bisogna anche fare attenzione alle dinamiche di Internet, perché i siti acquistano una maggiore o minore efficacia (visibilità) a seconda della potenza comunicativa di chi li istituisce... C'è una possibilità, solo in parte già utilizzata, di oscurare Internet o alcuni suoi settori... La libertà di viaggiare su Internet può diventare più apparente che reale.
  3. È democratica l'informazione? Cioè, quanto può il singolo cittadino esercitare il suo potere nei confronti dell'informazione stessa, perché sia conforme ai suoi principi o anche solo ai suoi interessi? Il potere che il cittadino ha è solo quello dell'utente: egli controlla non acquistando, non ascoltando, non vedendo. Ma in questo modo si taglia fuori dai grandi flussi informativi: diventa "analfabeta". E lascia campo libero ai "bene informati". Detto in altri termini: non c'è alternativa alla creazione di mezzi di contro-informazione. Quali sono? Dove sono? Chi li mette in campo?
  4. Con quali scopi è usata l'informazione? A scopi di potere, di arricchimento, di piacere. Quasi mai l'informazione persegue lo scopo suo proprio, che sarebbe quello di mettere in grado ogni persona di decidere sulla base dei fatti, delle "cose" che sa. Sempre più noi decidiamo non in base a quello che "é", ma in base a quello che crediamo essere. In questo senso siamo più "ingannati". Tanto più siamo ingannati quante meno sono le fonti informative: pensiamo che tutta l'informazione della carta stampate e delle televisioni dipende da quattro o cinque agenzie del Nord del mondo. Il ruolo dei piccoli "informatori" diventa sempre più difficile, come avremo occasione di verificare (vedi la MISNA).
  5. Quali effetti produce l'attuale "sistema" informativo?
    1. Anzitutto un effetto di restringimento del mondo: è reale solo ciò che è comunicato. Quindi, gran parte del reale (vedi i 4 o 5 miliardi di poveri del mondo; vedi le guerre nascoste; vedi i Paesi cancellati – come la Somalia, la Cecenia, .....) viene reso invisibile. Praticamente non esiste al di fuori... degli occhi di Dio (per fortuna, Dio guarda quasi solo quella parte lì del mondo!).
    2. Un secondo effetto è l'effetto imperialistico: si crea una parte dominante, collegata a livello mondiale, che si impone al tutto. Quello che padre Zanotelli chiama "l'impero" non sarebbe possibile senza l'attuale sistema di informazione. Questo ne è non soltanto una parte, ma una base.
    3. Un terzo effetto è il monolitismo culturale. Vengono distrutte le differenze, proprio perché esprimono una libertà di modelli di pensiero e di comportamento. L'uniformità, sotto l'apparente interesse folcloristico per i costumi dei popoli, è uno degli effetti più evidenti dell'attuale modo di informare.
    4. Un quarto effetto, il più distruttivo a mio avviso, è quello dell'appiattimento mentale; ed è ottenuto tramite il consumismo informativo. Tante informazioni che si susseguono a ritmi impressionante finiscono per rendere tutto irrilevante, per cui occorre sempre più "sensazionalismo"... Non si lascia tempo di assimilare gli stimoli e di rielaborarli secondo una propria visione delle cose. Tutto è presto emotivamente assimilato ed emotivamente espulso, per lasciare spazio ad altre "sensazioni".
A questo punto, occorrerebbe dire che cosa dobbiamo e possiamo fare, a livello di base. Si dice, abitualmente: sviluppare un'attitudine critica. Ma non basta! Recenti ricerche hanno accertato che leggendo un giornale per tre anni consecutivi si finisce per assimilare il "pensiero" di quel giornale, anche da parte di chi si crede criticamente ben attrezzato...Qualche cosa il mondo missionario cerca di fare anche qui: Riviste missionarie, EMI, MISNA, ec. sono piccoli esempi.

Occorre dunque arrivare ad un nuovo stile di vita non solo nei consumi, ma anche nel campo dell'informazione:

  • prenditi cura della tua informazione;
  • preferisci il piccolo (dove ci sono meno interessi economici e quindi meno distorsioni);
  • ritrova la lentezza dell'informazione: in un'era di continua informazione (giornali su internet) non si capisce più niente e si crea ansia. Riprendi un libro, un mensile… guarda le cose un po' più dall'alto e le vedrai meglio;
  • cerca un'informazione socializzata: con altri, discuti, confrontati, scambia articoli...
  • valorizza l'informazione "dei volti", che riparta dalle persone e dalle loro storie;
  • forma reti informative alternative, capaci di ribattere – direi punto per punto – alle informazioni distorte, alle notizie costruite. Impresa difficile, ma non impossibile con esempi eccezionali proprio nel Sud del mondo;
  • fa spazio alla stampa missionaria: alle riviste, all'EMI (www.emi.it), alla MISNA (www.misna.org);
  • dai vita a una sala libri e riviste, a un gruppo che seleziona notizie…
  • non dimenticare che il servizio del telegiornale è solo l'imput...
  • dà spazio all'informazione non solo sul Sud del mondo ma dal Sud del mondo.
Cristianamente parlando, una informazione corretta fa parte delle virtù della vigilanza, una delle virtù fondamentali nella prospettiva evangelica del Regno di Dio. Solo con una informazione corretta, che avrai solo se tu lo vuoi, passerai dalla competitività alla convivialità; dal profitto al dono; dal possesso all'uso e sarai una persona libera (...)


Di Padre Ottavio Raimondo, guarda nel blog anche l'intervista di Antonio Caterino.




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